CALABRIA – Che strana storia è la tua storia!

ggQuando fu il tuo giorno, Calabria, il buon Dio, con i 15000 km quadrati di argilla che si trovò in pugno, fece uno dei suoi più grandi capolavori.
Eppure, che strana storia, è la tua storia. Che obblighi tutti ad andare in giro per il mondo, senza chieder di restare mai a nessuno.
Mio nonno lo hai costretto a partire, terra adorata, e alla stazione non lo hai neppure accompagnato. ‘La prossima volta’, gli hai mandato a dire.
Mio padre lo hai fatto mettere su un treno, ed era di notte, e tu non lo hai neppure salutato. ‘Ci saluteremo poi’ gli hai fatto sapere.
Tanti li hai mandati alla ‘Merica , a Nuvajorca e in Canada’, e senza neppure accertarti che avessero i soldi del biglietto. E tristemente solo ‘andate’ gli hai detto. Altri, come Cristi, li hai destinati al Settentrione. ‘Jiti jiti’, gli hai raccomandato, e non ti sei mai neppure preoccupata di quale fosse la precisa destinazione.
Non ho mai preteso che tu avessi fermato mio nonno, e neppure avessi obbligato mio padre a restare, e neanche avessi impedito a tutti gli altri di partire, ma mi sarebbe piaciuto, questo sì, gli avessi dato l’opportunità di decidere da sé, quale strada fare. Se andare o restare. Il viaggio invece lo hai sempre maledettamente imposto, come una marchetta, come un bollo. E non è giusto. Una madre, qualunque razza di madre essa sia, è il bene dei suoi figlioli ciò che vuole, e non il suo esclusivo che sostiene. E tu, che madre dei calabresi sempre sei, mi chiedo perché non ti sei mai pentita. Perché imprudenteme non hai protetto i 15000Km quadrati di argilla con cui il buon Dio ti ha plasmata. E da secoli, imperterrita, ti giochi il sonno dei figli e il valore con sui sei stata coniata. E ti assoggetti alla cultura del compare e dell’amico; corrompi la ginestra e il fico; pianti bidoni tossici ogni piede di ulivo; punti pistole al posto del dito; diffidi l’Aspromonte e anche il Pollino, e condanni il mare al peggior confino.
Vedi, Calabria, l’alternativa ai tuoi sciocchi giochetti di potere, che peraltro una madre a un figlio non farebbe mai, non può, anzi non deve essere più, il viaggio antico. A cui ci inchiodi da generazioni. La tue esibizioni da bordello, non possono essere più a carico di chi parte. Ma devi cominciare ad avere rispetto di chi resta. Di più ancora di chi torna. Ché noi siamo uomini, la tua fottuta malapolitica, cìotia.
E allora forza, bellezza mia, apri le braccia a chi ti domanda udienza, a chi in questi giorni ti chiede di tornare. Non devi lasciare lontano più nessuno. Devi mostrarti madre, anche quando non ce la fai, farti amare da tutti, e soprattutto amare. Solo così, quando ognuno di noi penserà di ripartire, scegliendo liberamente il proprio viaggio da fare, nei libri di storia verrà scritto che tu, Calabria, resti l’amato ventre, tutti i figli tuoi, calabresi di Calabria, e nel mondo, la mente.
‘Mamma regalami una terra del ritorno. Oggi. Doma è già tardi’.
#Calabria

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19 MARZO (nell’anno del coronavirus)

19 Marzo
La festa del papà arrivava assieme al mio onomastico.
Doppietta, diceva mio padre.
Mia madre si preparava in cucina di buon mattino. Si aspettava per pranzo anche il nonno. Da quando era rimasto solo, passava con noi gran parte delle sue giornate. Insieme festeggiavamo, in silenzio, anche la nonna. Io mi chiamo Giuseppina per lei che si chiamava Giuseppa. Un tramando a cui mio padre aveva fortemente tenuto. Non l’avevo mai conosciuta, ma me l’aveva fatta amare come se mi fosse stata sempre accanto. E sotto il nostro nome mi proteggeva.
Il nonno tutti gli anni mi regalava una banconota da diecimila lire. La tirava fuori dalla tasca dei pantaloni come un tesoro. Mia madre invece, mi porgeva sempre un pacchetto ben confezionato, serrandomi al petto più forte che poteva. Ciò che però, più mi rendeva felice, e che non mancava mai dopo del pranzo ad onorare la nostra festa, dentro la nostra casa, era il pan di spagna a forma di cuore decorato con zucchero e cioccolatini. Per noi era un elemento importante, consolidava la nostra unione familiare, facendoci promettere un altro giorno così, anche l’anno a venire.
Sono passati tanti anni, tutti felici, con il ritmo della festa a scandire le nostre gioie, fino a quando un giorno, mio nonno a pranzo non è più venuto. Mia madre mi disse che si era seduto alla tavola di San Pietro, e lì ci sarebbe rimasto per sempre, insieme alla nonna e a San Giuseppe. Prima di andare aveva lasciato detto di continuare sempre la nostra festa, tutti gli anni, come quando lui era con noi.
E lo abbiamo fatto. Anno dopo anno, sempre allo stesso modo, con la stessa gioia, mantenendo fede alla promessa, anche mentre la nostra famiglia aumentava, come ci aveva augurato lui. Fino a oggi, di cui il nonno non conosce nulla.
Il pranzo a casa di mia madre, andrà deserto. Non ci sarà nessuna festa. E non perché veniamo meno alla promessa, ma perché per la prima volta, da allora, un virus maledetto, ci costringe isolati nelle nostre case. Lontani gli uni dagli altri.
Ascolta bene, nonno, un giorno torneremo più forti di prima, la festa è solo rimandata, San Giuseppe lo sa.
Oggi al posto del tradizionale pranzo, eleveremo al cielo le nostre preghiere, per tutti i padri del mondo, per quelli che resistono e anche per quelli che in questi giorni hanno mollato.
Quando tutto sarà finito, per loro e per noi, apparecchierò la tavola con tutte le cose di allora, e dal cielo alla terra, sarà una grande festa.
E giuro sul pan di spagna a cuore che accadrà.
#festadelpapa #sangiuseppe

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ERASMUS TRA NORD E SUD -Torna la Questione Merdionale-

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Così ritorna la questione meridionale. Sì, proprio lei, quella cosa fitusissima che non la cheta mai.
Ma ditemi allora, l’Italia è stata mai del tutto una?

Sono da sempre una meridionalista convinta, Il SUD è dentro di me come il cuore nel petto, e so bene com’è andata. Non mi son fatta nascondere la storia. Il Nord ha da sempre vissuto la sua nobil economia grazie al Sud, e il Sud si è spopolato per industrializzare il Nord, e poi bla, bla bla… Scriveteci voi il resto, tanto tutto fa brodo.
Quando nel 2020, non muore mai la dualità tra Nord e Sud, e a riportarla agli onor della cronaca, che non è nera, ma negrissima, sono giovani sarde, non di mare, ma di piazza, e la chiamano Erasmus tra Nord e Sud, fermiamoci tutti. I giovani del Sud fanno l’Erasmus al Nord da sempre. E anche all’estero ormai, se è per questo.

*La questione meridionale è sempre stata qualcosa di serio e non teatrale, uno spettro che soprattutto in passato, ha fatto tanto male. Ha fatto vincitori e vinti, vinti che però sempre si son rifiutati ritornare vincitori. Serviva coraggio, invece è stata innescata paura.
LA QUESTIONE (NUOVA)
* Il Sud si desertifica. Tanti, quasi tutti figli, fanno la valigia. Un trolley. Continua l’esodo della razza della gente in viaggio. Il Nord, l’Europa. Mio figlio, da un mese, è nel regno Unito.
Ma chi ci deve fermare a noi? È davvero il Nord, con la sua cordata di scienza, ché lassù di scienza puzzano e noi no, che ci deve impedire di partire? È il lupo nero del Nord, che deve strategicamente provvedere alle pecorelle?
Ma finiranno o no sti tempi?
* A Sud nessuno fa figli. Uno ed è già assai. Le natalità scendono progressivamente. E l’era conta vecchi e poche speranze.
Ma perché non facciamo figli, noialtri del Sud? Siamo detti sterili forse? Abbiamo da generazioni figliato sempre come conigli, seguendo la regola del”meglio ricchi di carne che di roba” . E mo’, chi succediu?
I PUNTI DELLA NUOVA QUESTIONE
Sviluppo e con coscienza.
1) A noi del Sud non ci può fermare nessuno. Neppure Gesù Cristo. Nessuno l’ha mai fatto, né lo farà mai.
A Noi del Sud, ci deve fermare il Sud stesso, nessuna delegazione è valsa. E ciò avverrà, se avverrà, quando il Sud non sarà più un alibi, ma la maggiore delle nostre responsabilità.
Il Sud è un cane che si morde la coda. E gira, gira… Chjù muzzica, e chjù gira.
È vero, abbiamo vissuto anni duri, noi del Sud. Anni in cui l fame era dolore e il dolore fame, lontani dalle nostre case, e sempre in attesa che arrivassero il progresso e la farina. Poi però un bel giorno sono arrivati, progresso e farina, e noi siamo tornati, ed è qui che abbiamo incominciato a morderci la coda come il cane. Quando al posto del pane, sulle nostre tavole, ai nostri figli, abbiamo dato da mangiare la politica del compare e dell’amico dell’amico. E all’amico e al compare, per rispetto e pé saluti, lo abbiamo votato, portandolo al comune e alla regione. E al comune e alla regione, compari e amici, si son mangiati tutto, pure a noi, dai piedi, poveri ciucci. Che tutte le volte che il ciuccio volava, noi volavamo con lui, poveri . E quatti quatti, han preso possesso di quel futuro che non era nostro ma dei nostri figli, gettandoli per sempre, e senza scampo, nel limbo del viaggio, vietandogli l’occasione naturale della scelta, consegnandogli una vita su cui peserà per sempre il peccato dell’erranza.
Abbiamo sì sofferto, patito con le lingue di fuori quando ci prendevano le case, i signori non ci davano lavoro, i terremoti sconquassavano i paesi, le alluvioni li modificavano, e a Terrarossa, la luce era appena la fiamma di una teda, ma ciononostante abbiamo preferito minchioni del pappo tutto io, del tuo è mio e il mio è soltanto mio, che non solo si son riempiti la pancia, ma ci hanno ruttato pure contro, e con la puzza impoveriti del tutto.
È anche vero che le distanze son penitenze, e che forse stare a una certa altezza del gambale ci avrebbe fatto meglio, ma nessuno sceglie il posto in cui nasce, nessuno quando nasce sa di essere al Nord o al Sud, a Est o a Ovest. Bisogna saper cogliere l’occasione, e noi, aihmé, le abbiamo sempre sprecate. LEGGE DEL CONTRAPPASSO
Ci hanno finanziato aziende con le 488, e dopo gli anni previsti dai bandi ne abbiamo chiuse un buon 90%( la mia soffre, ma non molla); ci hanno elargito prestiti d’onore in abbondanza, e invece di aprire le attività rendendole autonome, ci siamo comprati i suv, mentre con i fondi dei b&b ci siamo aggiustati le case. E qui mi taccio, che è meglio.
Allura, dicitimi cristiani, chi li deve fermare i nostri figli? Chi ci deve salvare a noialtri?
2) Non facciamo figli più di uno. Custanu. E poi che futuro gli possiamo dare?
I nostri nonni (contadini, muratoti, calzolai, massari) ne facevano sette e pure otto. E le creature, belle come il sole, crescevano a pane e olive, e le famiglie erano sane. Ed erano felici.
Mo’ che ci siamo civilizzati invece, non ci basta niente. E la famiglia perde l’identità di sempre. Effetto domino.
Dio col Sud è sempre stato più buono che col Nord. A Noi calabresi per esempio, ci ha dato la Calabria, dal principio con sette bellezze più una, ma noi, miseri e pacci, sempre per la legge del futti cumpagnu, con le nostre questioni della minchia, che su dieci nove sono del mia culpa, mia culpa, mia santissima culpa,abbiamo distrutto tutto. Anche il futuro fantomatico di cui tutti parlano, dato dalla somma del passato più il presente.
Il mare, da azzurro che era, l’abbiamo tinto di nero, tra scarichi fognari, inquinanti, tossici e mundizza; il cielo da celeste chiaro, l’abbiamo fatto grigio, che anziché mandare al recupero i materiali di scarto, abbiamo pensato che il fuoco fa di certo prima a togliere gli ingombri dalle palle; La campagna da verde prato, l’abbiamo incarognita e fatta noir, ché ogni piedi di ulivo vi abbiamo piantato un bidone tossico; e la montagna quatta e zitta, se n’è scesa a mare, e di quel che scrisse Repaci, amici cari, non abbiam lasciato di immutato nulla.
La vera questione meridionale, cari signori, siamo noi del Sud. Sud di nessun Nord.
Noi medesimi. Noi stessi, che siamo causa dei nostri mali, che abbiamo ridotto all’osso la vita dei nostri figli, che ci siamo svegliati sempre troppo tardi, e che i favori ingenui certe volte, fatti a chicchessia, non ci sono mai tornati se non con ricadute negative su noi stessi.
La vera questione siamo noi. Che ci siamo mangiati i palazzi a partire dai piedi dei tavoli, facendo collassare gli ospedali, le strade, i trasporti, la Magna Grecia che con doglie di madre ci ha partoriti.
“Ormai”, Tanto”, sono queste parole la causa vera del nostro danno. Nulla vale a nostra discolpa. Perchè il picchio del Sud, deve finire una vola per tutte. Abbiamo sempre concesso proroghe e tregue gratuite agli imbrogli, ma soprattutto, siamo rimasti cani senza coda, imbrogliati, cazzuni e corrotti, perdendo la dignità per cui eravamo nati uomini e donne in questo nostro Sud.
La questione vera, è il nostro amaro consenso alla nostra fine, il tacito assenzio, il non sapersi ribellare, la capacità assurda di subire anche dentro le nostre case, il coraggio di farci stravolgere e scombinare il mondo in cui siamo nati. Ecco cos’è!
Dove abbiamo voluto, ce l’abbiamo sempre fatta. Sì, noi del Sud, dove abbiamo voluto ce l’abbiamo sempre fatta.Il resto è storia che pende sopra di noi come una spada di Damocle, e nessuno ci tirerà mai fuori da qui, finché non avremo deciso noi che il Sud che abitiamo è uno stato d’animo e non un semplice pezzo di terra in fondo all’Italia. Ecco il vero Erasmus di cui abbiamo bisogno.
***
“Non fate i meridionali per essere presi in considerazione dal mondo, ma siate meridionali considerandovi del mondo. Non dite di venire dalla terra del lutto, ma che avete pianto al lutto della terra. Non sentitevi bravi a rinnegare i vostri padri partendo, ma sentitevi fieri a ricordare tutti i padri tornando. Non fate figli per dare i nomi del Sud alle loro teste, ma date al Sud il nome delle teste dei figli. Non private le vostre lingue nobili dai suoni tamarri del dialetto, ma siate tamarri dialettando i suoni nobili delle lingue. Non dite a nessuno, mai, che il sud non esiste, ma ricordate a chiunque che voi esistete al Sud”.

Giusy Staropoli Calafati

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SI CHIAMERA’ CALABRIA

11165210_893889714006841_7818859099797813739_nVieni mia sposa, e tra le mie lenzuola di ginestra, distenditi. Riposati adesso. Saziati con il miele delle mie zagare, bagnati con le gocce che stillano dal cedro. Stanotte ti spalmerò con oli pregiati le tue membra rosa, e ti intreccerò i capelli con i fiori del gelsomino. Ti renderò bella e preziosa, e profumerai, affinché tu possa aggiustarti supina, verso gli dei, tra i grappoli delle mie vigne e godere del rossore del mio vino. E ti renderò felice, mia bella, e ti suonerò con corni e con conchiglie. Con la mia lira a tre corde suonerò musiche antiche. E vibreranno i tuoi crini. E ballerai. Per me volteggerai leggera.
Torna, mia amata, e poggiati sulle mie gambe. Non avere paura e innamorati di me ancora, ché senza mai più contraddirti ti aprirò le braccia, e dentro i miei seni caldi, ti terrò stretta per sempre. E lo farò, mia cara, e tu sai che accadrà, perché tu pendi dalle mie labbra e io dalle tue. E dallo stesso calice, la bevanda inebriante bevuta ieri, la berremo ancora, e si chiamerà Calabria il giorno della festa del tuo ritorno.
Giusy sc

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APPELLO N. 2 BRIATICO/ LA MARINA/ IL MOLO

0Dopo lo sconquasso della violenta e inattesa mareggiata della vagilia di Natale, abbattutasi su tutto il litorale tirrenico, l’ultima ondata della settimana passata, da il suo colpo di grazia.

Il mare incalza rabbioso, non ne vuole che sapere, scava ancora, e prepotentemente avanza abbattendo il po’ di molo rimasto. E come se si ammainasse una bandiera, gli occhi vanno a terra e il cuore pure.
**Qui, in questo labbro meraviglioso di mare, nell’aprile del 1783, dopo la malura del 5 di febbraio, che rase al suo la prima città, i contadini di Briatico si erano fatti pescatori, e sempre qui avevano con fierezza, issato fino a Dio, con la bendezione dei Pignatelli, lo stendardo della nuova Briatico e quello votivo alla Madonna. “Issa, Issa!”**
Una rovina difficile da sopportare, che mentre i piedi nudi dei pescatori toccano ancora il mare azzurro d’inverno, commossi, ripensano ai loro sacrifici di una vita, alle mani tagliuzzate dalle reti sulla pelle liscia dei loro figli, alle facce abbronzate dal sole sulla bocca delle loro mogli, alle famiglie tutte intere che da questa parte del molo hanno sempre visto partire e anche aspettato i loro padri.
5Un danno difficile da caricarsi addosso, per chi, purtroppo, sa che la burocrazia e lo scarica barile, potrebbero uccidere questo posto, e che mentre altrove si giocano a sorte, come fossero la tunica di Cristo, le tanto ambite poltrone, nessuno verrà a vedere le cose da rifare, e tutto finirà col mare, lì dove è cominciato.
Ma io non posso permettere che accada. Noi non possiamo lasciare che succeda. Abbiamo una storia e una dignità da difendere.E poi, Briatico è nostra, di nessun altro.
Dobbiamo farci sentire. DOVE SEI BRIATICO?
Quello “speriamo bene” che sento carico di rassegnazione mi fa paura. Orgoglio ne abbiamo? E coraggio? Identità? E senso dell’appartenenza?
Siamo chiamati tutti.
Dobbiamo pretendere che in tanti vengano a vedere, e per noi, e con noi, ridare a questo scorcio di terra e al lavoro dei pescatori, la dignità che è degli uomini. E secondo tutte le leggi.
Ai politici e ai politcanti, ai cittadini, ai professori, alle istiuzioni, agli amanti e alle carriere ormai fatte, ai titolati di buon parttito e ai pennacchi che comandano i bottoni, a chiunque possa fare qualcosa, con il cuore in mano dico, non lasciateci soli. Aiuateci a ricostruire e noi sorrideremo.
Tutto questo mentre sogno di portare Briatico alla BIT, un giorno…
Giusy Staropoli Calafati
Calabrese briaticota per sempre
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INVASIONI DI GIGANTI E CONQUISTE CULTURALI

3Grande nuova invasione di giganti a Palmi, nella scuola primaria San Francesco. Il progetto continua, di scuola in scuola.
Storia e tradizione. Identità e leggenda con il mito dei giganti. Bambini entusiasti e attenti, con tanta voglia di conoscere e sapere, chi erano i giganti e chi era Mastro Micio. Una giornata meravigliosa che hanno poi raccontato al loro ‘caro diario’. 4Ogni testo una grande emozione. Quella che i libri sempre mi permettono di provare.
Grazie a Palmi, città dei giganti. Grazie alla dirigente scolastica Dott.ssa Gualtieri S. Ivana; alle meravigliose docenti Bonfiglio Teresa e Carbone M. Antonia.

 

Per info su come organizzare un laboratorio nella tua scuola è possibile scrivere una mail a giusystaropoli@libero.it
INVASIONI DI #GIGANTI E CONQUISTE #CULTURALI

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BRIATICO: lu mercuri lu cincu di febraru 1783

Lu mercuri, lu cincu di fevraru, a chju puntu paria ca perimu. Eppimu la Madonna pe’ riparu.
***
Mercoledì 5 febbraio 1873.
Un terribile terremoto si abbatte sulla Calabria. Briatico viene rasa al suolo, perdendo circa 90 dei suoi abitanti sotto le macerie. Un movimento brusco della terra che segna per sempre la vita di questa comunità.
Briatico non molla. Tra i resti della chiesa del Franco, la statua lignea della Madonna Immacolata, detta Maria del Franco o del ginocchio, è tutta intatta. Un segno. Una speranza. Un prodigio.
Briatico ci crede ancora. Si può ricominciare. E sia.
Il 4 aprile del 1783, incomincia la seconda vita. Dal colle della città distrutta, alla marina di Briatico. Qui, ai piedi della torre saracena, da contadini ci trovammo pescatori. Grazie alla Madonna e anche al duca Pignatelli che dove aveva le vigne, ci concesse di costruire le baracche. E da terremotati tornammo uomini. Briaticoti. ❤️
‘Ti amo anche nella storia #briaticomia

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BRIATICO / RAI 1/ COME UNA MADRE/ CALABRIA

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Dentro di me come il cuore nel petto…
La marina è la mia casa. Qui sono nata, mi sono cresciuta, ci ho cresciuto i miei figli, e lentamente, sempre qui, mi avvio a invecchiare. Non vorrei farlo in nessun’altra parte del mondo. Oramai siamo perfette complici io e lei. Come sorelle della stessa sacca, come madri e figlie, come amiche del cuore.
Il nostro amore è per sempre. D’estate, quando il mare è cautu ed è caligine. D’inverno, quando è tempestusu e forti.
Perchè nella nostra intimità ci confidiamo cose. Anche l’amore che non è più un segreto.
Potrei andare in capo al mondo, ma non trovarei mai un mondo migliore. La mia Torre, il mio vecchio Mulino.
Ah, la mia marina di Briatico!
L’Alfa e l’Omega. Le genesi e l’Apocalisse. Il tesoro della caccia, l’abitino bello della Madonna.
Da qui, il 4 aprile 1783, Briatico ripartiva, dopo lu mercuri lu cincu di frevaru, quandu a chiju puntu paria ca perimu. Da qui, Briatico riissava la sua bandiera, e i contadini si facevano pescatori.
Quando le parlo sommessamente, bella mia, sorrido, quando mi parla dalla conchiglia, mi commuovo, quando la leggo tra le rughe, le vecchie pietre, e l’innocenza che ha, vivo. E quando la vedo triste, perchè non si sente amata, piango.
Non c’è mai madre, più madre della tua, e non c’è mai terra più amata della mia. Con tutti i suoi ori e i suoi argenti. Quando calandu pa calata da marina, vidi la bella turri saracina.
E ieri sera, l’avete vista in molti. Su Rai 1, Come Una Madre, con Vanessa Incontrada, regale come non mai. Che nonostante io la massaggi e la coccoli, l’accarezzi tutti i giorni, ho sentito le farfalle nello stomaco. Mi si è smossa ‘na cosa dentro. Una cosa che, facendo appello al cuore, mi ricordo si chiama ORGOGLIO. E poi anche IDENTITA’ e pure SENSO DELL’APPARTENENZA.
1Venite a vedere da vicino ciò di cui vi parlo. Non mento, giuro. Venite a sentirle il cuore che batte, le onde del mare che si corruccia. Il chiacchiericcio mai spento dei vecchi passi, le voci cinguiettanti dei bambini. Venite a capire cosa provo, quando vi racconto e narro, che Briatico è il mio orgoglio e la mia passione. Che qui ho quel posto che non potrò mai lasciare, e che non lascerò mai andare.
Per Te, paese mio del mare, Euriatikon del cuore mio, mi batterò di penna e di faccia. Sempre. Nessuno ti sfilerà la tua corona dai capelli, che li hai morbidi e sottili come il bisso. Perchè io T’amo, solo come la propria casa si può amare.
Spero che un giorno tutti ti ameranno come ti amo io. Perchè la nostra storia continua e non finisce dentro un film (la cui trama non è affatto bella quanto i luoghi). Neppure quando piove e domani nessuno sarà venuto ad aggiustarci il molo che, il mare, a dicembre, ci ha portato via.
Chapeau, Briatico! <3
tua per sempre
Giusy

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CALABRIA: ECCE DONNA! Da Non è l’Arena di Giletti al 26 gennaio della Calabria.

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La storia è sempre risultata la migliore attestazione di stima di un popolo. Dei luoghi che questo abita. E che storia ha la nostra Calabria? È nobile? È ricca ? È povera? È dama o ‘gnura?
Potremmo stare qui e raccontarcela per giorni, per mesi, per anni, se solo i nostri politicanti minchioni non l’avessero portata al macello, davanti ai nostri occhi e a quelli dei loro figli.
Avete presente un padre che lascia tutto ciò che ha in eredità ai suoi figli, e questi colti dall’entusiasmo si mangiano ogni cosa sperperando?
Ecco, noi calabresi abbiamo fatto la stessa cosa.
Dio ci aveva dato la Calabria con tutte le sue meraviglie, e noi ce la siamo finita tutta.
E ora chiedere perdono al Padre non basta più.
***
Mentre ieri si contava una settimana esatta al giorno del voto, per il rinnovo delle cariche, alla “mensa” regionale, su La7, a Non è L’arena di Giletti, la -mia- Calabria, entrava sanguinante ed usciva dissanguata.
Ecce Donna!
Un porcello femmina appeso a testa in giù e squartato. Sanguinaccio e morzello di Catanzaro.
Trivuli, malanovi, ominicchi e scecchi.
Giorni di malura e anni di vergogna. Davanti agli occhi dolci di una zingara(Calabria) che non ha timore di chi le tira i conti in faccia, ma prova sdegno nei confronti di tutti quelli che da prima di ieri fino a oggi, hanno fornito, a sue spese, senza distinzione di razza, regole e giochi, i numeri necessari per farli i conti. Quelli del quattro e quattr’otto, carte, primera, scopa, e soprattutto oro.
Conti di pulcinella, mille miglia distanti dalle eccellenze che nella mia, e non vostra (porci d’ingrasso), MagniaGrecia, si spalmano dall’Aspromonte al Pollino. E a testa alta, occhi al cielo e al bendetto Cristo, non stanno a golgolare tra le mani lisce di cravattari, partiti e logge, ma faticano in quelle fessuriate dai calli, dei padri con la schiena ricurva, i lavoratori, gli imprenditori onesti, e gli uomini, i cui sacrifici raccontano l’orgoglio e la dignità della parte migliore della Calabria. Quella che non ha cercato fortuna altrove per scelta, e per lo spontaneo senso di appartenenza che le batte dentro al cuore, qui ci è rimasta senza ma e senza se. Ci è rimasta e basta. Perchè è giusto morire dove si è nati. Almeno tentare di darsi questa possibilità.
Quando per soldi, o per scelta, o chissà cosa, parlate della Calabria, cari signori calabresi, che per un filo di pennacchio che avete, a volte pure moscio, vi sentite delle grandi teste…, abbiate il coraggio della responsabilità, dell’esempio, dei sani principi, dei valori. E vi prego, per carità di Dio, non fatelo per propaganda personale, magari avandola pure lasciata la Calabria. Ma solo per onestà e se in Calabria operate, vivete, combattete, fate l’amore e la guerra. Altrimenti non vale, ma soprattutto non serve. Non fa il bene dei calabresi.
Tutti abbiamo le nostre colpe, quaggiù. Le vecchie e le nuove generzaioni E sono proprio quelle terribili che pesano al centro dello stomaco. Ma ora non è più il momento di piangersi addosso. Bisogna essere uomini e donne. Con scelte di campo, scelte di vita, sociali, econimiche, politiche e familiari. Scelte forti che dicano da che parte stiamo. Lontano dalle leggi scritte al tavolo dei comparaggi, dalle regole d’oro che fanno amici, gli amici degli amici, e così via.
Ma non siamo stanchi abbastanza di essere sempre ultimi?
E quanto ci vogliamo bene, noi?
Finchè non saremo belli come il nostro mare e le nostre montagne, dentro e fuori, senza trucco e senza inganno, non ce ne vorremo mai abbastanza. E gli altri ce ne vorranno ancora meno.
I nostri figli partono, Perdio santo! I nostri paesi chiudono, le nostre storie finiscono, e tutto per colpe delle nostre miserabili scelte. Delle nostre indegne opere. Della troppa facilità con cui non adempiamo ai nostri doveri, non pensando che sono essi che determinano i nostri fondamentali diritti. La sanità, l’istruzione, la giustuzia.
Pretendiamo sempre lo STATO. LO STATO SIAMO NOI. Le nostre azioni, i nostri impegni, le nostre vite, le nostre facce e le nostre mani pulite. Le nostre aziende, il nostro lavoro, e persino i nostri sogni.
È STATO la Calabria dei volti scoperti. Liberi. Quelli che raccontano la nobiltà morale dell’uomo come Lino Polimeni . L’onestà e il coraggio, la dignità e l’orgoglio.
Domenica, 26 gennaio, noi calabresi avremo una nuova occasione, forse l’ultima. Nella cabina elettorale dovremo essere capaci, almeno una volta, di guaradre in faccia gli uomini e le donne a cui daremo il nostro voto. Da questo questo dipenderaà il nostro futuro.
La #CALABRIA può/deve farcela. Per i sogni di tutti i giovani calabresi #onesti.
Ogni sera, presso la “Fonte della Cucchiarella, si rinnova il miracolo dell’acqua di San Francesco ❤️

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BAMBINO DELL’EUROPA

77777777777***Cari signori membri e responsabili dell’Europa,
sono io, Bambino, e sono appena morto. Vi prego, almeno adesso, non chiamatemi più clandestino. Non l’ho mai sopporto.
Ho dieci anni. E ora è certo che non ne avrò mai neppure uno di più.
Da nove e mezzo sono alla ricerca della felicità. Quella cosa che ti fa sorridere e ti fa stare bene. Ti fa sentire bambino vero e diventare uomo. Così, per raggiungerla, ho escogitato un piano. Qualche giorno fa, di nascosto da tutti, mi sono acquattato dentro il carrello di un Boing 777. Una figata! Sembrava di andare sulla luna. Poi però a 9000 metri di altezza circa, a -50° sotto le zero, sono diventato improvvisamente cadavere.
Cari signori membri e responsabili dell’Europa,
il fatto importante è che però sono risuscitato. E ora, che lo vogliate o no, abiterò nel vostro cuore per sempre.

gsc

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APELLO N. 1 -BRIATICO: la marina e i pescatori in ginocchio *** NON LASCIATECI SOLI.

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La vigilia di Natale, la marina di Briatico, così come tutto il litorale costiero, si sveglia traviata. Piegata dentro la sua pancia. La furia del mare, mette in bilico il destino di uno dei borghi marinari più belli d’Italia. Che se non fossi di parte, direi, più belli del mondo.
Un antico (ma non vecchio) borgo di pescatori, FOCUS di tutto il territorio regionale. Un borgo che però, ahimè e ahinoi, dopo le propagande più impegnative, svariate e varie, di enti pubblici e privati, viene sistematicamente ricondotto alla sua solitudine di sempre. I pescatori, le barche, la vecchia torre e il mare. La spiaggia assolata e i suoi ossi di seppia.
Eppure, questo luogo, è il simbolo della nostra storia. È da qui che la città di Briatico è ripartita dopo il tragico terremoto del 1783. Ed è sempre qui che Briatico, da luogo di campagna, diventa luogo di mare. E i contadini, si fanno pescatori.
Il più vecchio è zio Vincenzo. Ha passato i 90. Non va più in mare, ma è tutti giorni laggiù. Davanti le vecchie baracche, dona consigli, insegna e consegna storie. A questo posto ha dedicato tutta la sua vita. Ha il mare negli occhi. E nelle sue mani i saperi e il sapore del mare.
I nostri marinai vivono alla marina d’estate e d’inverno. Come i gabbiani, se c’è tempesta o c’è sereno. Ma dopo il 24 di dicembre, tutto è cambiato. Il volto della marina si è trasfigurato, e anche il loro. Che sono uomini e sono padri.
3333Una violenta mareggiata ha distrutto il loro/il nostro porticciolo. L’acqua, con la sua dirompente furia, ha scavato con violenza, portando via la punta del molo, e soprattutto traviandolo esattamente nel punto in cui venivano attraccate le barche, scaricato il pescato, e caricati i camion.
Il giorno di Natale, niente nenia al Bambino. Solo la conta degli amari danni.
Il mare, ritirandosi alla sua quiete, ci ha riconsegnato una marina distrutta. Su cui è gravare come macigno, è soprattutto l’abbandono a cui la si vede destinata. Quel tragico epilogo, di cose come questa, che è causa della burocrazia, delle scartoffie, di un fermo immagine che non restituisce altro che fine alla fine di tutte le cose.
E se la marina finisce, finiremo pure noi. Saremo più poveri di sempre.
Dunque l’appello accorato, va prima di tutti, ai briaticesi: non rimaniamo inermi, rimbocchiamoci le maniche se serve. La marina è simbolo di vita, di inizio, nessuno può lasciarla sola. Nessuno può permettere che lentamente muoia. Serve un movimento di massa, se necessario, pronto a chiedere interventi immediati e urgenti, in nome di tutte le volte che difronte al suo spettacolo ci siamo entusiasmati, e forse anche scandalizzati, per la sua indicibile bellezza. Per tutte le volte che in quel mare, anche solo bagnandoci i piedi d’inverno, abbiamo ringraziato Dio per questo dono immenso; per tutte quelle volte che l’abbiamo ritratta in una foto, che l’abbiamo narrata e dipinta. Per il pane che ha dato e deve continuare e garantire, a tante famiglie. Per chi nel mare ci ha lasciato la vita, i sogni. Per i pescatori che ogni notte lasciano le mogli dentro al letto e vestiti della loro cerata partono verso il mare incerto, e non hanno paura. Non lo temono.
Per tutti noi. Ma soprattutto per la nostra grande regina del mare, quella Madonnina tenera, il cui sguardo materno ci protegge, e che nei giorni passati, con sfregio, è stata decapitata assieme al suo Bambino. Ma che per i nostri pescatori è il tutto di sempre: è la storia, la fede, la devozione, la preghiera. Il nostro più bel canto. Totus tuus Maria.
Dunque, Il mio appello, come briaticese, amante spregiudicata della marina, narratrice dei luoghi, amica dei pescatori e compagna della vecchia torre e della storia della mia Briatico, è a chiunque possa intervenire e con urgenza per il ripristino dei luoghi, e della nostra identità.
4444Ai commissari di Briatico, in quanto organi di Stato, perché facciano atti immediati, nelle loro possibilità, in quanti capitani attuali del nostro comune, nel richiedere urgenti fondi da destinare al ripristino del molo; ai politici di ogni razza, di ogni partito e di ogni bandiera, che rappresentano questa provincia, capitanata dall’immagine della nostra torre saracena; agli enti regionali preposti, senza distinzione alcuna.
Mi appello altresì a tutti i candidati, senza partito e senza colore, alle prossime elezioni regionali, ché se nulla verrà fatto prima, portino in seno loro, la nostra marina e il suo risanamento. Perché se questo luogo verrà abbandonato, in quanto nessuno vorrà farsene carico, allora sappiate avrete abbandonato anche noi, che siamo padri, madri, figli, famiglie intere, e che lo sarete pure tutti voi senza le nostre povere, ma forse anche utili, schede elettorali.
Briatico deve continuare a brillare come una pietra preziosa, e non finire come una montagna di pietre.
***
“La prossima mareggiata che fa, lo spezza in due, ce lo butta qua dentro e finiamo di lavorare. BASTA!
Prima attraccavamo là, scaricavamo il pesce e venivano i mezzi a caricare. Adesso siamo tornati come gli antichi. Dobbiamo tirare le barche a riva con tutti i pesci a bordo, poi portare il pesce sulle carriole fino alla strada e caricarlo sui mezzi. Il mare è entrato assai. È tutto rovinato” . (Dalla voce di Prostamo, pescatore di Briatico, ai microfoni del TGR)
GSC

 

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SEMPRE PIU’ TOLI TOLI

555555555Dopo l’invito del sindaco di Vibo a Checco Zalone, ho una grande preoccupazione che mi preme proprio qui. Sullo stomaco.
Se Checchino accettasse l’invito, e arrivando dicesse – che bella giornata! – , e per malasorte vibovagasse proprio davanti la scuola elementare di Porto Salvo, (potrei citare ancora altri mille posti, ma rimando a questo più volte segnalato) ‘ndi potarria veniri n’amaru sdilluggiu. A noi, ma soprattutto a lui.
Il problema è davvero grosso.
Malaguratamente, si distraesse a guardare i prati e le aiuole, gli uccelli del cielo, pensado ai pesci del mare, ché lui cade sempre dalle nubi, e ‘ntroppicasse ‘nta fossa, che da mesi si gonfia e s’allarga, è lì che affonda, a un palmo dalla scuola, rischiamo che invece di ridere, piangeremo. E questa volta per davvero. E io non voglio. Per il bene del paese.
666666666Checchino, figghju, non venire no, tanto nui simu ruvinati a prescindere. E non c’è mare, non c’è nduja e neppure Dei sulla costa disposti a salvarci.
Sotto montagne di spazzatura, raccolti a feto dentro le male buche delle strade, riposiamo in pace. Nel rispetto delle tasse e in attesa della tanta agognata dignità, che la battuta di un attore comico come Zalone, forse ha toccato in alcuni. Anche se io ho sperato scuotesse le coscienze.

GIUSY SC

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BOSSI NON LEGA IL MIO NATALE

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Bossi – non lega – il mio Natale
*********
La mia lettera di Natale al Boss-i della Lega.
“Caro Umberto,
Mi chiamo Giusy e sono una felice meridionale dalla nascita. La Calabria è la mia culla e il mio sepolcro.
Il Sud è un destino dentro al cuore che non mi lascia, e io, soprattutto, non lo so lasciare.
Il Natale è oramai alle porte. In questo periodo dell’anno vorrei poter stringere tutti in un abbraccio. I belli e i brutti, i grandi e i piccoli, i bianchi e i neri, gli amici e i nemici, con il fischio e senza.
Stringerei, se fosse per me, anche lei, ma la distanza che ci divide è troppa, mi dicono. E se misurata con la dualità tra Nord e Sud, raddoppia. Dunque per farle gli auguri ho pensato di scriverle una lettera, anche se oggi non si usano più.
Alla sua età, non mi resta che raccomandare al Bambinello la sua salute, ma alla mia, caro patron di secessione, raccomando fermamente la mia terra. Quel tanto lurido e bastardo Sud, in cui felicemente vivo, lo raccomando proprio a Gesù Bambino, che suo malgrado, nasce anche qui. E perché come me, neppure lui si lega. Nasce libero, avvolto solo dal canto di sua madre. La mia mia, mi canta nenie, ancora, tutti i giorni. È bella, e si chiama Maria.
*
(…)I meridionali vanno aiutati a casa loro, se no straripano come gli africani.(…)
*
Caro Umbertino, che dopo essere adulti, si ritorna magicamente bambini, i meridionali non vogliono essere aiutati. E mi spiace che nessuno glielo abbia detto. Siamo sani come pesci noi, non siamo malati. Non siamo neppure pochi. Non abbiamo le ossa rotte, stiamo in piedi sulle nostre gambe. E si figuri che abbiamo fatto noi l’Italia.
Non cerchiamo sostegno e neppure assistenza, noi del Sud. Si figuri che abbiamo dignità e coraggio, abbiamo forza e figli carichi di sogni. E tutto ciò che abbiamo vale come diamanti, e non come montagne di pietra.
Non si preoccupi per noi, Umberto caro, ma pensi piuttosto alla nebbia della sua Padania, che offusca la vista agli occhi e al cuore. Perché vede, se noi del Sud cerchiamo veramente qualcosa, in questa grande e piccola Italia, questa si chiama Opportunità. Una cosa tipica del genere umano. Di quegli uomini che lavorano, e sudano tutte e quattro le stagioni. E si chiama Occasione La stessa che è tipica di tutti i sognatori del mondo. Degli uomini e delle donne. E lo facciamo da professori, ricercatori, luminari, imprenditori, uomini di scienza, uomini dello STATO, veri talenti che alla scuola della terra non hanno mai voluto rinunciare. E hanno umilmente sempre attinto a ogni risorsa. Incluso il bisso del mare. E hanno impegnato, con fede e devozione, i propri sacrifici nello studio, nell’acquisizione delle competenze, nelle scelte, nella professionalità. E con il sangue, ogni giorno, lottano per la bandiera, per il grano buono e per la farina. Per la dignità e per il lavoro. Anche se piove. E oggi, piove.
Con il nostro lavoro, signore mio, abbiamo costruito, e con cura e con garbo, anche il suo amato Nord. Le braccia di padri e di figli meridionali, il sudore di intere famiglie, lo hanno industrializzato. E non è roba da stolti incapaci questa, e neppure cosa da inutili, sporchi e oziosi uomini. Questa è la GRANDE storia di chi si è sempre sentito orgogliosamente terrone. Che non ha mai rinnegato la propria terra né davanti agli uomini, né davanti a Dio. E non si scomodi con le parole. Mi creda, non serve. Aiuti piuttosto se stesso a sciogliere le corde con cui l’egoismo lega lei e quelli come lei. Quando abbiamo straripato come gli africani, invadendo il Nord con la forza delle braccia, vi è piaciuto, non è vero? Dica la verità. Vi è fatto comodo? Lo dica, senza remore. E non si preoccupi del fatto che è quasi Natale.
Vede, caro Umberto Bossi, gli aiuti che ogni popolo merita, non sono sfottò, o scissioni, o inquietanti quarantene. Non vi sarebbe alcun recupero. Servono solo garanzie di dignità e di lavoro. Una comune norma tra uomini. Ma con le vostre folli idee di politica maniacale, e le fetusissime pratiche di fottistero, non avete fatto altro che negare all’Italia intera ogni speranza. Ai giovani di tutto il paese, inclusi i vostri figli, la possibilità di occupare liberamente uno spazio. Il Sud, non è la parte opposta al Nord, ma sta a Sud di se stesso. E come tale ha i suoi diritti e i suoi doveri. Non si scomodi, Umberto caro, non si affanni a tirare ancora per vie cieche il suo vecchio carroccio. È quasi Natale, il figlio di Maria, folle com’è, nasce al Nord e nasce al Sud. Non teme alcuno straripamento. Non chiede da dove veniamo, ma sa sempre chi siamo.
Dunque, non mi resta che augurare a lei, ai suoi uomini, al Matteo evangelizzatore dei buoni propositi, un santo Natale, al grido commosso e sincero:
W L’Italia”
Giusy
la calabrese

 

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TERRONA

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[…] In quinta elementare mi avevano picchiata perché ero terrona.
I miei compagni ridevano di me. Ero la zecca della classe.
– Puzzi – mi dicevano. E provavano piacere.
Ero arrivata in Lombardia con i miei, quando avevo solo nove anni, e sin da subito avevo subìto come un torto le mie origini.(…)
Eravamo i figli degli stolti noi, degli zappaterra incolti. Gli scemuniti che partivano con la valigia di cartone per arricchire le città con la fatica e le torture, come quelle che con le chiacchiere maligne infliggevano a me, che ero arrivata a odiare la mia terra così come si può odiare la morte. […] gsc

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FORZA CALABRIA

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La politica non è una cosa approssimativa. Anzi, a dirla tutta non è proprio una cosa. La politica è una delle forme più alte di cultura e senso di responsabilità verso tutti che però non è per tutti. Il fare politica è una cosa seria. Una forma gestionale che pone il suo tutto a favore della comunità sociale, e si muove secondo i valori della collettività adottando la pratica del tutto per gli altri e niente per se. È a dir poco, una forma di umanità possibile. Una formula che però non si traduce in concretezza e fattibilità all’interno della società attuale. Così che il mondo ci scivola tra le mani.
La politica italiana è una maledetta orgia della vergogna. Quella calabrese, uno zimbello tragicomico. Così che soffre Venezia, ai primi colpi di autunno; piange Licata che precipita in mare; urla Matera che si affoga tra i sassi, e oggi bestemmia la mia Calabria subissata dal fango.
Decenni di malagestione, fondi deviati, corruzione dentro e fuori porta. Anni in cui porci a due zampe hanno ridotto a una zimba vera e propria il nostro paese.
Non è bastata la vita di Stefania Signore, e dei suoi due bambini, travolti dal fango della terra, l’anno passato?
Ma che volete di più? Vi siete presi tutto, e ora che l’acqua che il cielo ha diritto di far venire giù come vuole, si prende semplicemente il suo spazio, urlate: – Allarmi, allarmi!
Ma non vi sono nemici in arrivo. Sempre e solo voi. Che prendete e non date. Che non pensate al poi, trascurate il prima e vi piangete il durante.
La Calabria sta cadendo a pezzi. Strada per strada, ponte per ponte, galleria per galleria, uomo per uomo. Giù come soldatini le sue bellezze. La grecità, i principi, i canti…
I fiumi esondano all’impazzata, la terra scivola e gli uomini muoiono.
Non ci salveranno le allerte e neppure gli stati di calamità naturale. Le colpe sono cose troppo grandi. A lungo andare schiacciano come macigni.
Dunque siate uomini, con tutti i sentimenti del cuore, nelle vostre opere. Siate responsabili e lungimiranti nella cosa pubblica. Non arruffate, non imbrogliate…
Operate in prevenzione.
Non aspettate che il Sant’Anna esondi, o che la strada delle Serre crolli… o che torni il 3 luglio un’altra volta ancora.
Pulite gli argini delle strade, liberate le cunette strozzate con violenza dalle erbacce selvagge, liberate gli alvei dei fiumi dai detriti e dalle masse erbose che ostruiscono il passaggio naturale dell’acqua, fate manutenzione al territorio al posto dei pranzi e delle cene nei locali, mettete in sicurezza le scuole, riabilitate e con urgenza la figura del cantoniere, che era si, l’angelo della strada.
L’acqua si prende solo ciò che è suo… La natura non è matrigna. Il rispetto è questione di reciprocità. Tra gli uomini e e le cose del creato. Ricordatelo nei vostri comizi elettorali, nelle vostre propagande di partito. Non siate subdoli, i territori e la loro sorte sono il riflesso preciso della vostra opera.
Solo dopo aver fatto tutte queste cose, chiamatevi pure politici, amministratori, uomini e donne di responsabilità. Perché, cari signori, sapevatelo, le cose non accadono sempre tanto lontano da noi. A volte succedono davvero troppo vicino. A noi praticamente.
(Giusy Staropoli Calafati)

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SONO MATERA E NON SONO COME VENEZIA… a mia madre ITALIA (perchè il Sud non sarà mai come il Nord)

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Ciao, mi chiamo Matera.
Non sono come Venezia, no. Siamo diverse e anche distanti, ma siamo figlie della stessa madre. Non siamo propriamente gemelle, ma sorelle, sì. Stesso sangue e identica compagnia di bandiera.
Da quando sono nata, ironia della sorte, vivo in Basilicata. Qui ho i miei sassi, le mie meraviglie. Ho la mia storia, e come tutti anche la mia vita. In tanti, da tutto il mondo, vengono a visitare le mie pietre.  Alcuni si innamorano qui. Fanno l’amore tra i sassi, e poi si amano per sempre. E io sono felice. L’amore è una cosa meravigliosa. Ma nonostante tutto, ripeto, so di non essere come Venezia. Io ho le pietre, lei la sua laguna.  Due fascini che ci distinguono l’una dall’altra. E per la legge di mia madre, ci separano. E si chiamano Nord, e si chiamo Sud. Dualità tra opposti.
Lei si chiama Italia, ha la forma perfetta di uno stivale. È bella, ricca di cose straordinarie. Fa innamorare di lei tutti quanti. Il fatto è che però non ci ha mai volute bene allo stesso modo. Venezia la chiama, e lei subito corre. Poi la chiamo io, e scompare. Non sente. Non mi risponde. Non so che le fare certe volte, ma è sempre mia madre. E la mia bandiera ha i suoi stessi colori.
Dunque, non sarò certo come Venezia, è vero, ma sono Matera però, ho i miei sassi, le mie meraviglie e come Venezia, sono in Italia anch’io. Qui esisto. Ci sono, perbacco!
In questo giorni, io e mia sorella Venezia, siamo state tanto male. Per poco non soffocavamo entrambe. Non avevamo mai vista tanta acqua in tutta la nostra vita. Venezia si è allagata come mai nella sua storia. I miei sassi, pure. Abbiamo entrambe chiesto aiuto. Chiamato nostra madre. E dov’è andata? È corsa da lei. “Vengo Venezia mia!”
Ora so che è inutile continuare ad aspettarlara. Mia madre è a Venezia che asciuga l’acqua al canal della sua figliola.
A me non resta che curare da sola le mie ferite. Rimettere a posto i miei panni e i sassi.
È vero, non sono come Venezia.  Ma vi dico che Venezia non è neppure come.
Io mi chiamo Matera. Ho i miei sassi, le mie meraviglie, ma soprattutto una grande dignità ITALIANA. E sull’onore della bandiera di mia madre ce la faremo!
giusy staropoli calafati
(scrittrice calabrese)
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UN ALTRO FIGLIO(calabrese) CHE PARTE. CALABRIA-LONDRA (tratta da un racconto di gsc)

LONDRA 1Se ti scrivessi” cara mamma” sarebbe una lettera come tante. Allora incominciò così:

Ciao ma’,

Sono io, il tuo pesce palla. Il Simo della tua vita. L’uomo di casa. Tutte le volte che mi hai chiamato così mi hai fatto sentire importante, anche se Te lo dico ora per la prima volta. Era come sentirsi dire: ” bravo Simo!”

So che una lettera da me non te la saresti mai aspettata. Simone è uno forte, hai sempre pensato. Simone non piange mai. Simone è questo, Simone è quello. Ma Simone, ma’, è debole come tutti i figli. Facciamo finta di essere duri, specialmente i maschi, ma poi… quando meno te lo aspetti veniamo giù come pere. E se non ci fossero le madri, saremmo finiti veramente.

Ci sono cose che avrei potuto dirti ogni giorno della nostra vita. Mentre cucinavi, o quando mi invadevi la stanza con la scusa dei panni fuori posto. Però non l’ho mai fatto. Ho sempre avuto paura di parlarti dei mie sogni, di come immaginavo il mio futuro, dove, con chi… E forse ho sbagliato, non lo so. Il fatto è che nella vita non sai mai quello che giusto e quello che no. Le cose vanno, vengono, succedono e poi… poi niente le prendi per quelle che sono, per come ti capitano.

A questo punto della lettera, ti immagino già seduta. Gli occhi lucidi, le mani tremanti…

Dai, speriamo che ce la faccio. Non è facile neppure per me. Ma in fondo, noi due, siamo stati sempre pronti alle novità, ai cambiamenti…

La nostra è una terra dura, mamma. È sempre riuscita a far scappare via tanta gente. Ha perso sempre i più onesti, i più lavoratori, e forse anche i più sognatori. Dicono tutti che è troppo stretta. Non concede occasioni, non offre opportunità, tarpa le ali, non sogna, non ne realizza. Qui tutti tornano per il mare, il sole, le vacanze. I padroni delle case tornano solo in villeggiatura. E non è abbastanza per noi, mamma. Quando c’è di mezzo il futuro, le bellezze, i panorami, non bastano più. Valgono troppo poco. Non so se riesci a capire ciò che provo. Io non mi sono mai illuso di riuscire a fare qualcosa di grande al paese. Il paese è troppo piccolo per le cose grandi. E noi siamo troppi pochi. Il sistema non funziona, ci lascia soli, non ci sostiene. Non ci da lavoro. Ci sottrae al lavoro.

Il fatto è che forse sono  cresciuto ormai, e ora vedo le cose in un altro modo. Da grande. Sento che ho grandi responsabilità verso me stesso e verso gli altri. Non ho schemi precisi è vero, ma ho tante ambizioni.

A un certo punto i figli crescono, mamma. Se hanno una madre soltanto, come me. Se hanno una madre e un padre. Se la famiglia è tradizionale o è una famiglia allargata. Qualunque sia lo status in cui stanno, crescono. E da grandi si cerca, si vuole… Quel che da bambini bastava a farci sorridere, ora non è più abbastanza. Cambiano il pensiero, le responsabilità… Cambia tutto.

E poi, questa terra è pazza, mamma. Ti cresce e poi non ti sa tenere. Ride quando nasci e piange quando parti. Ma che vuole? Perchè non parla con noi giovani? perchè non prova a capirci?

Con tutti gli sforzi che fa, proprio non riesce a darti un solo motivo per restare. Quanti sacrifici hai fatto tu per me, eh. Quante umiliazioni hai preso dai tuoi padroni. E quanti ne hai serviti. Quante scale hai lavato e quanti passi ripulito sopra. Quante assurde meschinità, hai sopportato. Una donna sola con un figlio a carico, quaggiù è cosa dura. È chiacchiericcio e malizia. E tu sei stata brava, sei andata avanti a testa altra. Ma io non sono come te, mamma. O forse conta il fatto che adesso che sono grande voglio di più per tutti e due. Per me e per te. Voglio un futuro mio, capisci? E non un futuro a caso, di quelli che il Sud certe volte, quando è alle strette, pare elemosinare. Voglio il futuro che sogno, quello che immagino quando disteso sopra il letto alzo gli occhi al soffitto e vedo il  mondo girare sopra la mia testa. Il mondo grande con tutte le sue avventure, la sua grandezza… E non sono le fantasie della giostra, le mie. È la mia vita. E io ho deciso, mamma. Ho deciso finalmente cosa voglio farne.

Ho preso la maturità con il massimo dei voti. E ora voglio di più, mamma. Non mi basta fare il bagnino al lido d’estate, e neppure vendere i gelati alla stazione dei treni. Io voglio provare a capire di più. Voglio continuare i miei studi. Il futuro non aspetta, è un treno che passa e lascia alle spalle un deserto africano vero e proprio.

Simone da domani sarà un altro di quelli che partono. Ho deciso, mamma. Farò questo viaggio anch’io. Lontano da qui.  E il giorno è finalmente arrivato. Londra mi sta aspettando. La desidero e la sogno da un sacco di tempo. Già vedo il suo cielo grigio e la sua fretta. Saprò amarla, sai. Saprò farmi amare. Bisogna volerle le cose, lo sai. Crederci. Mi hai sempre detto che Cambridge non è roba per noi. Invece ti sbagliavi. Perché io ce l’ho fatta, mamma. Mi hanno preso. Non sono poi tanto cìoto come figlio, e neppure tanto palla come pesce. Sono un rarazzo che a 19 anni vuole di più. Un più che qui non esiste, che mi porterà lontano, ma mi dirà speranze nuove. E lo sai anche tu.

I sogni vanno rincorsi, mamma. Vanno realizzati a tutti i costi. Le occasioni vanno colte, le opportunità pure. Lo faccio per noi. Perché un giorno possiamo ricominciare assieme da dove ci siamo lasciati.

Il tempo passerà in fretta, vedrai. Noi siamo forti.

Parto per dare un senso alla mia vita, ma soprattutto ai tuoi sacrifici di madre. Vado, imparo più che posso e poi torno. Tu non devi fare altro che aspettarmi. Perché io tornerò e ti porterò via, con me. È una promessa.

Ora devo andare. L’aereo parte fra un po’.

Tu asciugati quelle lacrime, lo sai che non mi piace vederti piangere.

Abbiamo cura di noi, mamma. Di ciò che siamo stati, di ciò che siamo e che tutto ciò che saremo.

Ciao ma’!

Il tuo Simone.

(Un altro figlio che scappa)

P.S. Abbi cura della nostra terra. E insieme perdonatemi se non ho resistito.

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A MAMMA NATUZZA -LA LETTERA DI GIUSY S. C.

A MAMMA NATUZZA
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NATUZZA 2“Cara mamma,
oggi forse ti sarai sentita triste. La tua sesta figlia era sola. Esule in uno strano silenzio. Rannicchiata come i bambini. Attendeva la dolce nenia. Ma tutti hanno taciuto. Tutti tranne la Chiesa, che ti ha fatto la sua festa a Mileto, nella grande cattedrale della Calabria, mentre tante povere messr son state celebrate per te in ognuno dei nostri cuori. Non devi darti pena, mamma mia. Tu lo sai come vanno le cose degli uomini. Non sanno liberarsi dall’orgoglio, e prepotenti insistono a vedere con gli occhi invece di guardare con il cuore.
Quante carezze vorrei darti, mamma cara. In un milione di abbracci vorrei stringerti, e all’orecchio, nel segreto, susdurrarti che t’amo.
T’amo con ogni parte di me che vive. I respiri. I fiati, i sogni, le speranze. T’amo tutta quanta sei.
Nom preoccuparti, vorrei dirti, passerà. E dai che deve passare. Ne’ tu, né la Madonna potete più stare fuori di casa, Dio non ce lo perdonerebbe ancora. Si era affidato a noi e lo abbiamo deluso. La Madonna nostra aveva contato su di noi, e l’abbiamo tradita.
Vorrei tanto che gli uomini deponessero le loro armi. Si spogliassero nudi dall’orgoglio, la vendetta, il potere, e si lasciassero guidare dal cuore. Lì solo potranno trovare Dio. E rivedere te. Sorriderti ancora, e con il soffio mandarti un dolce bacio. Il più saporito di tutti, quello che manca ancora e che tu aspetti perché tutto possa ricominciare, e rivivere nella fede verso il Signore.
O mamma mia, dona a noi quaggiù, quanti siamo, il dono dell’obbedienza, ai grandi, inonda il cuore di carità. Non si distraggano, rimamgano umili, figli amati.
Con i tuoi giovani ti aspettiamo, e saremo in tanti nella quella spianata santa in cui ci hai lasciati, con le campane a festa, come sentinelle della Chiesa del tuo/nostro dolce Gesù.

Per sempre tua
Giusy

GIUSY S.C.

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10 ANNI- NATUZZA EVOLO -dieci anni dalla morte di mamma Natuzza- di gsc

10 ANNI- NATUZZA EVOLO
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natuzzaIl cuore trema e l’anima freme.
Non trova pace, né in cielo, né in terra. È in tormento, è agitata. Si contorce, e scalpita. Non si rigetta. È tempestusa. Si vota e si rivota. Suspira.
Era il giorno di ognissanti. Natuzza Evolo tornava da Gesù.
Con lui aveva giocato quando era bambina. Con lui aveva parlato quando era cresciuta. E ora con lui si addormentava.

<<Vegnu mio Signuri, mai fu’ chju’ pronta io pe’ tia
m’abbrazzu lu splenduri di la Madonna mia>>.

Una vita consegnata a Gesù e alla Madonna. Carica di dolori, sofferenze, povertà e miseria.

<<Accettu stu doluri o mio dolci Gesu’
ca spartendu a sufferenza, suffri i menu puru tu>>.

Una vita accettata sulla carne e dentro al cuore. Una croce portata in braccio e sopra le spalle. Dentro la pancia calda come quando è gravida. Dentro l’anima che accetta e non parla.
Una vita nata per il prossimo, fatta dal bene perché generi altro bene. Fatta di sangue e di afflizione. Di preghiera seduta sulle ginocchia col pensiero ai figli del mondo. Ai giovani, uniche rose sopra i piedi della Madonna.
Una dolce vita, che oggi, a dieci anni di distanza dalla sua morte, soffre dolori e pene più atroci.
È martoriata. È contesa. Messa al flagello. Giocata a sorte tra gli uomini. Ma la tunica è sempre tutta d’un pezzo.
Di chi sarà allora la madre?

Non so io cosa è giusto, o cosa non lo è. Non so io, chi ha ragione e chi non ce l’ha. Non so niente io. Ma sono figlia di una madre, e sono madre io stessa. E Natuzza è stata mia madre. Natuzza è sempre mia madre. E le madri vanno amate. Esse sono delicate come i fiori. E vanno difese, protette dalle tempeste. Dalla forte grandine, vanno riparate. Rassicurate dalla grande forza dei figli. Quelli di carne e quelli dell’anima. E la sesta figlia di mamma Natuzza, anch’ella si adoperi per sua madre. Le conceda la vita di sempre. Quella bella e serena. Non la rattristi, si faccia sue membra come è sempre stata. Le madri vanno rispettate. E Natuzza è MIA/TUA/SUA/NOSTRA madre.

<<Eccolo lo strumento di Dio!>>.

Apri gli occhi, mi dicevano da bambina. E se non vedi bene ancora, apri il cuore. Con quello vedrai ciò che agli occhi è impossibile vedere.
Ecco di chi sarà la madre allora. Ora lo so.
Sarà di tutti i cuori aperti, di quelli capaci di vedere oltre, lontano, anche laggiù dove sembra impossibile arrivare.
Sarà di chi domani calpesterà il santo suolo della Villa della Gioia e senza poter sentire messa, se ne tornerà a casa rattristato; sarà di chi domani, nella cattedrale di Mileto, con trombe festose, ricorderà mamma Natuzza assieme al vescovo e ai suoi tanti figli; sarà di chi domani verrà con le mani vuote, provate dal dolore, e le chiederà una grazia, le porgerà una preghiera, un saluto. E col soffio le manderà il suo più dolce bacio. Sarà di tutti quelli che domani, a 10 anni esatti dal suo ultimo viaggio terreno, ovunque essi siano, non giudicheranno alcunché, si ravvedranno per le cose stolte, e sentiranno dentro al cuore e dentro l’anima , la voglia, ma soprattutto il desiderio ardente di ridare a mamma Natuzza, la sua dolce culla e il sereno sepolcro, riunendo ciò che il diavolo, da tempo, tenta di dividere.

<<Oi giuvani belli, veniti ‘cca’ undi mia,
a tutti anzemi vi dicu a Madonna chi volia!>>.

E voi, figli, che saprete chi sarà la vostra MADRE, pregate, perché ritorni la pace nella sua casa. Lì c’è Dio! (giusy s.c.)

“Per amore di tutti i miei figli …
Mamma Natuzza”!

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ALLE OLIVE – racconto-

olive

L’ottobrata era fatta di pane e olive. Mia madre, dopo averle schiacciate con una pietra di mare, -ché prendendosi del sale della pietra diventavano più saporite- le lasciava per giorni sotto il filo di acqua corrente. – Nommu avissi u stagna mai l’acqua d’alivi – diceva. E allora scorreva.
Una partita le mangiavamo fresche. Dopo l’ammollo, le aggiustava con fiori di finocchio, aglio e peperoncino. Le miscitiava con le mani affinchè prendessero tutti i sapori e dentro una tijanuzza allargata dai fianchi, le portava in tavola. Le altre invece andavano dentro la giara. – A giarra d’alivi – comandava. E la riempiva.
Le domeniche d’ottobre erano per le olive. Tutti in campagna. La sacra famiglia, sembravamo. E non doveva mancare nessuno. Servivano braccia. Serviva lavoro. Forza, assistenza.
Quando uscivamo di casa, in fila indiana, e qualcheduno domandava dove stessimo andando, rispondeva lei per tutti: – s’arramazza – diceva.
Ogni piede d’ulivo stendevamo una rete. Più d’una se la pianta era grande. Si scuotevano a mano. – Pista forti, chjù forti – e noi ragazzini davamo botte da farne cadere a decine. Era bello veder piovere le olive dall’albero, veder le reti coprirsi di quelle palline verdi. Ma più bello ancora era quando riempivamo i sacchi. Mia madre le cerniva e poi liberate dalle foglie le versava dentro la juta. Erano il frutto del lavoro, quelle olive. Il frutto sacro da cui avremmo ricavato l’olio, quello profumato, che saziava la fame e a volte anche i sogni. Dentro il pane sfiancato, crudo, o nei cibi cotti. Nelle carezze di mia madre, quando fiera lo versava dentro i piatti e questi si colorovano d’oro.
Alla sera poi, quando tutto finiva, in attesa della domenica seguente, si ritornava stanchi, ma felici. Nessuno osava lamentarsi. Neppure i più piccoli. Sapevamo tutti che quelle olive, che con la grazia di Dio avevamo raccolto, portate al frantoio, sotto le macine di pietra, sarebbero diventate olio, garantantedoci la ricchezza necessaria per andare avanti un altro ancora.

gsc
#sud #lavoro #olio #ulivi #storie

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IL VIAGGIO DELLE NUVOLE DI GSC, MENZIONE D’ONORE AL PREMIO ARTISTI PER PEPPINO IMPASTATO

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La scrittrice Giusy Staropoli Calafati riceve una menzione d’onore al concorso nazionale letterario “Artisti per Peppino Impastato” con l’ultimo romanzo dedicato all’esperienza di Riace “Il viaggio delle nuvole” Laruffa editore. Il premio, che vede come presidente di giuria il noto giornalista e presentatore Michele Cucuzza – è dedicato alla memoria del giornalista siciliano ucciso dalla mafia nel 1978, Peppino Impastato.

“Un onore per me  – dice l’autrice- associare “Il viaggio delle nuvole” al nome del grande Peppino Impastato, che ha speso la vita per affermare i valori della legalità e della giustizia. Un riconoscimento che voglio dividere con Mimmo Lucano che, a Peppino Impastato, a Riace, ha voluto dedicare la piazza del comune. Sono davvero orgogliosa di questo riconoscimento che mi rende particolarmente felice e lo dedico a quanti lottano incessantemente affinché le mafie finiscano e le nostre terre riprendano a vivere. fLo dedico a Riace, a Mimì e allo stesso Peppino, perché quando le cose accadono per colpa del vento nessuno le può fermare”.

La cerimonia di premiazione si terrà l’11 maggio a Milano.

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SAVERIO STRATI. A 5 anni dalla morte nel ricordo di Giusy Staropoli Calafati

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Il calabrese scrittore
“Gli scrittori calabresi, non sono scrittori periferici, ma solo scrittori nati in Calabria nelle cui opere c’è qualcosa difficile da spiegare, che fa parte del mondo degli uomini.” Con questo concetto, completa la sua visione di “periferia” Saverio Strati, in un’intervista del 1984.
Ma chi era (è) Saverio Strati?
<<Voi lo avete visto un giovane muratore, che si mette a studiare e infine diventa un grande scrittore? Ve lo presento io. Si chiama Saverio Strati.[…] Narratori di questa pasta speciale sono rari, come il sole d’inverno. Dovrebbero essere custoditi in una nicchia, come i Santi>>. ( Pasquino Crupi)
Saverio Strati nasce a Sant’Agata del Bianco, in Calabria, il 16 agosto 1924. Muore invece a Scandicci, in Toscana, il 9 aprile 2014. Oggi sno cinque anni di assenza e di mancanza.
Poeta contadino, scrittore della gente. Due cuori nel petto: uno che dice va. E l’altro: che vai a fare?
Pubblica, nel ’54, il racconto La Regalia. Storia di uomini e di zappe. Zappe e pane. Racconto forte, immediato, in cui pare essere egli stesso il protagonista, tanto che in una lettera all’amico Carmelo Filocamo, il 25 marzo 1954, Saverio Strati, scrive:«Carmelo, vent’anni passati con la zappa nelle mani, la cazzuola e la falce, e le sofferenze, non si can­cellano così. E non sarà Firenze a cancellarle, né Roma né Messina. La nostra Calabria, i nostri contadini, i no­stri lavoratori, tutti gli uomini, di ogni grado, di ogni condizione, sono dentro di me. E parlo con essi per del­le ore, per delle settimane e me li porto dentro per anni e poi escono, con un parto doloroso… E quanti massari e massaie e pastori e pastore, e muratori e calzolai e ra­gazzi e ragazze scalzi e nudi sono dentro di me. E non li vado scovando con la zappetta, ma vengono essi e si offrono e mi dicono: – ed ora tocca a me. A me –. A momenti temo che finisca prima che possa dire tutto. Ma se vivrò ancora vent’anni, vedrai che cosa saprà fare lo zappatore della Regalìa».
Nel 1956, edita da Mondadori, la sua prima raccolta di racconti con il titolo “La Marchesina”. A seguire: Premio Veillon con il romanzo Tibi e Tascia nel 1960; premio Sila con Il Nodo e Gente in viaggio, nel 1966; Premio Napoli con Noi Lazzaroni, nel 1972; Premio Campiello nel ’77 con Il Selvaggio di Santa Venere.
Un’opera letteraria crescente e vasta, fino al 1991, quando a Strati viene gratuitamente dato il diritto all’oblio. L’editore di sempre (Mondadori), si rigiutadi pubblicare Melina. Raccolta di racconti che pubblicherà poi con Piero Manni nel 2015.
La carriera di Saverio Strati incomincia una terribile discesa, fino a quando lasciato solo, senza neppure i libri, è costretto a chiedere il vitalizio riservato agli artisti per poter trascorrere dignitosamente gli ulti anni della sua vita, insieme alla moglie Hildegard Fleig.
Anagrammando il nome SAVERIO STRATI, che già in sé sembra avere tanto di romantico e suggestivo, il risultato che si ottiene è qualcosa di più romantico e trascendentale. “STAI RISERVATO”. Questo l’anagramma che Fra Diavolo (Carmelo Filocamo), compagno di studi e amico dello scrittore, coniò dall’analisi del suo nome. Ciò che Strati è sempre stato e consigliava di essere.
All’interno del saggio SAVERIO STRATI non un meridionalista ma il Meridione in sé che parla, invece, uscito per i tipi Disoblio edizioni nel mese di agosto 2015, rimetto, con specifico intento, come risultato dell’anagramma, un più semplice e ridotto “STAI SERIO”.
Una forzatura voluta l’eliminazione di alcune lettere, per poter così ricalcare l’importanza del trattare SERIAMENTE la questione Strati. La SERIETA’ dei suoi scritti, riconducendoli alle(nelle) scuole, tra i più giovani. Il SERIO concetto espresso finanche dal professore Pasquino Crupi, secondo il quale, “Narratori di questa pasta speciale […].Dovrebbero essere custoditi in una nicchia, come i Santi.”
Ho avuto la fortuna di conoscere Saverio Strati da ragazza. Venne a tenere una lezione nella mia scuola quando frequentavo ancora le elementari. Era la volta di Fiabe Calabresi e Lucane, scritte a quattro mani con il nostro comune amico, il prof. Luigi M. Lombardi satriani. Un incontro veloce. Uno appunto. Ché non si è mai più ripetuto. Un incontro tale a una passata di stagione, avrebbe detto mia madre. Abbondantemente madre, all’età di circa 30 anni, cercando tra gli scaffali di una libreria un buon libro da regalare a mio padre, ritrovo lo scrittore calabrese con il titolo di Tibi e Tascia. Un sussulto. Un lampo che mi coglie d’improvviso. Un ritrovamento spettacolare. Non avevo mai rimosso il nostro incontro, e in quel momento, più che mai, mi ritornava alla mente. Chiaro, nitido, come fosse la prima volta. Lessi poi, di Saverio Strati, in alcuni articoli di giornale, causa la condizione di indigenza in cui, quel grande scrittore, era costretto a vivere l’editore per il quale Strati scriveva, si era rifiutato di pubblicare i suoi scritti.
«Io, Saverio Strati sono nato a Sant’Agata del Bianco il 16 agosto 1924. Finite le scuole elementari, avrei voluto continuare gli studi ma era impossibile, perché la famiglia era povera. Mio padre, muratore, non aveva un lavoro fisso e per sopravvivere coltivava la quota presa in affitto. Io mi dovetti piegare a lavorare da contadino e a seguire mio padre tutte le volte che aveva lavoro del suo mestiere. Piano piano imparai a la­vorare da muratore. A 18 anni lavoravo da mastro mu­ratore e percepivo quanto mio padre ma la passione di leggere e di sapere era forte. Nel 1945, a 21 anni, mi ri­volsi a mio zio d’America, fratello di mia madre, per un aiuto. Mi mandò subito dei soldi e la promessa di un aiuto mensile. Potei così andare a Catanzaro a preparar­mi da esterno, prendendo lezioni da bravi professori, alla maturità classica. Fui promosso nel 1949, dopo quattro anni di studio massacrante. Mi iscrissi all’uni­versità di Messina alla facoltà di Lettere e Filosofia. Leggere e scrivere era per me vivere. Nel ’50-’51 co­minciai a scrivere come un impazzito. Ho avuto la for­tuna di seguire le lezioni su Verga del grande critico let­terario Giacomo Debenedetti. Dopo due anni circa di conoscenza, gli diedi da leggere, con poca speranza di un giudizio positivo, i racconti de La Marchesina. Con mia sorpresa e gioia il professore ne fu affascinato. Tanto che egli stesso portò il dattiloscritto ad Alberto Mondadori della cui Casa Editrice curava Il Saggiatore. Il libro La Marchesinaebbe il premio opera prima Villa San Giovanni. Alla Marchesina seguì il primo romanzo La Teda, 1957; alla Teda seguì il romanzo Tibi e Tascia che ricevette a Losanna il premio internazionale Vail­lon, 1960. Ho sposato una ragazza svizzera e ho vissuto in quel paese per sei anni. Da questa esperienza è nato il romanzo Noi lazzaroni che affronta il grave tema del­l’emigrazione. Il romanzo vinse il Premio Napoli. Nel 1972 tornato in Italia la voglia di scrivere è aumentata. Ho scritto Il nodo, ho messo in ordine racconti, apparsi col titolo Gente in viaggio con i quali vinsi il premio Sila. Negli anni 1975-76 scrissi Il Selvaggio di Santa Venere per il quale vinsi il Supercampiello, nel 1977. A questo libro assai complesso seguirono altri romanzi e altri premi. Il romanzo I cari parenti ricevette il premio Città di Enna; La conca degli aranci vinse il premio Cirò; L’uomo in fondo al pozzo ebbe il premio città di Catanzaro e il premio città di Caserta. Nel 1991 la Mondadori rifiutò, non so perché, di pubblicare Melinagià in bozza e respinse l’ultimo mio romanzo Tutta una vita che è rimasto inedito. Con i premi di cui ho detto e la vendita dei libri avevo risparmiato del denaro che ho usato in questi anni di silenzio e di isolamento. Ora quel denaro è finito e io, insieme a mia moglie mi trovo in una grave situazione economica. Perciò chiedo che mi sia dato un aiuto tramite il Bacchelli, come è stato dato a tanti altri. Sono vecchio e stanco per il tanto la­voro. Sono sotto cura, per via della pressione alta. Esco raramente per via che le gambe a momenti mi danno se­gni di cedere. Nonostante questi guai porto avanti il mio diario cominciato nel 1956. Ho inediti, fra racconti e diario, per circa 5000 pagine. La mia residenza è a Scandicci.
Saverio Strati
Post Scriptum: Devo aggiungere che avendo editore alle spalle e libri da pubblicare e da ristampare, non mi sono preoccupato a organizzarmi per avere una pensio­ne, un’assistenza nella vecchiaia. Non ho, da anni, una collaborazione a giornali o a riviste. Perciò non ho nes­sun reddito e quindi è da tre anni che non faccio la di­chiarazione dei redditi. Faccio inoltre presente che alcu­ni dei miei romanzi sono tradotti in francese, in inglese, in tedesco, in bulgaro, e in slovacco e in spagnolo (Ar­gentina). Miei racconti sono apparsi in riviste cinesi e in antologie dedicate alla narrativa contemporanea italiana: in Germania, in Olanda, in Cecoslovacchia e in Cina».
Scrissi a Saverio Strati più volte. Mai nessuna risposta. Ero arrivata tardi. La solitudine in cui l’avevano costretto i salotti letterari italiani e la sua stessa Calabria, l’aveva annullato dal resto del mondo. Reso diversamente uomo. Stranamente scrittore. Neppure più Saverio.
Lo considerai come un martire tra gli scrittori. Troppi abbandoni che non meritava. Troppa umiliazione subita. Fino a che lessi, con profonda commozione, la disperazione di un uomo diventato scrittore di nome Saverio Strati, in quell’accorata lettera perché gli concedessero la Bacchelli, affinché gli fossero lievi gli ultimi anni della sua vita.
Ma uno scrittore non lo si può far morire così. Non d’abbandono.
cropped-tt.jpgDa autodidatta incominciai un’approfondita ricerca su Strati. L’identità. L’appartenenza. Le opere. I luoghi, le persone, le cose, il paese… Lessi i suoi libri con la stessa attenzione che da bambina riservavo alle favole. Intraprendendo un profondo studio sulla sua narrativa.
Saverio Strati era l’ultimo autore vivente del 900 italiano. Mi innamorai di lui, tale e quale a una figlia che si innamora del padre; una nipote che si innamora del nonno. Le sue storie non erano fantasie. Le sue donne non erano solo storie. I suoi racconti non erano invenzioni. E le sue realtà erano racconti. La sua vita, le sue idee, i suoi libri mi hanno rapita. Si son presi il cuore. Di donna, di madre e pure di scrittrice. Smuovendo, con impeto e seduzione, la mia coscienza (di calabrese), facendo vivere e rivivere in me il senso vero dell’appartenenza che sempre mi aveva legata alla terra di mio padre. A Strati devo ridare una memoria. Me lo sono promessa. E nel cuore l’ho promesso anche a lui. Glielo deve la Calabria, della quale spesso e volentieri, con coraggio, mi faccio voce. Glielo deve la Toscana, dove ha vissuto oltre 50 anni di libri e di vita. L’Italia glielo deve, per averla raccontata in tante lingue del mondo. E l’editoria più di tanti altri, glielo deve. Se solo qualcuno mi avesse insegnato a conoscerlo nei modi e nei tempi adeguati come era giusto che fosse, Saverio Strati, il mio interesse per l’epopea stratiana, sono certa, sarebbe incominciato molto prima.
Saverio Strati non è stato un meridionalista. Strati non ha difeso a spada tratta il Meridione quale luogo di appartenenza e provenienza. Non lo ha mai fatto per prese di coscienza, o partito preso. Saverio Strati in tutta la sua opera, si fa Meridione e come tale racconta i luoghi, le persone le cose, raccontandosi. La voce narrante che predomina nei suoi libri non è quella di un uomo cresciuto in Calabria; non è quella dello scrittore con vissuti e spaccati meridionali. La voce narrante nei libri di Saverio Strati è la voce del Meridione in persona. È la voce della gente reale, vissuta a Meridione, che chiede di essere ascoltata e raccontata. Gente che con il lavoro delle braccia, i sacrifici, i pianti, le partenze, gli stenti ossessi e anche la morte, ha sempre dato vita a un Meridione fatto di popoli umani. Una terra che ogni qualvolta ha voglia di essere raccontata, chiama. E Saverio Strati ha risposto sempre a tutte le chiamate della terra, facendosi egli stesso Meridione. E non per definizione. Egli, Meridione lo era. La sua opera letteraria lo è. La sua poetica contadina, lo è. I suoi libri non narrano di favole ghettizzate a Sud, ma bensì divengono custodie di storie vere in continuo viaggio verso i Sud del mondo.
Un premio Campiello piovuto sul Sud come le stelle in una notte d’inverno.
“So bene che il mio successo ha dato fastidio a molti letterati di potere.” – dice Strati in una sua intervista del settembre del 1977 concessa a Stefano Lanuzza – “Una vera beffa che, tramite il loro premio borghese, io abbia avuto il modo di farmi conoscere dal grande pubblico. I giudici del Campiello non avevano immaginato che il mio libro potesse vincere il premio: altrimenti non lo avrebbero ammesso nemmeno nella cinquina finalista. Ho visto il disappunto e la contrarietà dipingersi sul viso di tanti notabili del mondo letterario. Questo come puntuale conseguenza del paternalismo imbarazzato che può accompagnare il non poter fare a meno di met­tere nella rosa finale l’opera d’uno scrittore proletario del Sud, pubblicato da un grosso editore. Nessuno dei signori suddetti si è degnato, dopo l’assegnazione del premio, non dico di complimentarsi con me, ma anche solo di dichiarare la propria adesione al mio libro. Con divertimento, ho assistito al ridicolo mimetismo di gen­te che evitava di salutarmi per non compromettersi…”
Strati ha sempre amato senza mezze misure, la sua terra.
«La Calabria la porto dentro di me da sempre e fino a quando le forze me lo hanno consen­tito sono ritornato a vederla, a goderla. La Calabria dei suoi mari, del cielo che è sempre sopra di me, delle montagne. La Calabria degli emigranti come io sono stato, di tutti i lavoratori […]».
Un amore incondizionato. Viscerale. Troppo inquieto ed esigente. In Calabria Strati ci è nato, e presuntuosamente, seppure è deceduto a Scandicci, in Calabria dico che Strati ci è anche morto. Non serve un luogo fisico, geograficamente stabilito in un certo angolo del mondo, per dire che si muore dove si nasce. Saverio Strati è morto altrove è vero, ma con la Calabria dentro al cuore. Risulta essere lui, uno di quei calabresi che pur andando via, dalla Calabria non è mia partito. Il rapporto che la Calabria stringe con Strati però, è un’altra cosa. È un rapporto difficile quello che la terra ha vissuto con lo scrittore. Riservato, schivo. Taciturno. Vicino e lontano insieme, presente e assente. Un rapporto di odio e di amore. Quasi selvaggio, che descrive Saverio Strati nei suoi viaggi di ritorno in Calabria, come il figlio non riconosciuto. Colui che assume sulle sue carni il volto dell’emigrante dimenticato.
La Calabria infatti, non ha mai esultato per l’opera stratiana. Né mai gioito per i successi dello scrittore, non comprendendo che quelli vissuti da Strati erano invece i successi della Calabria stessa. Il riscatto di una terra che partiva dalla cultura, questo incarnava Saverio Strati. Ma l’oblio a cui è stato condannato, lo ha condotto a vivere la più alta soglia di solitudine che possa spettare a un uomo, di più a uno scrittore. Prima di morire, in piene facoltà mentali, Saverio Strati espresse fermamente la volontà di essere cremato e solo dopo diffondere la notizia della sua morte. Si condannava, Saverio Strati. Tanto da voler lasciare la terra in silenzio. Forse con lo stesso silenzio che aveva lasciato la Calabria, tanti anni addietro. Il silenzio della morte. L’eterno silenzio.
Questa terra, oggi, credo abbia un profondo debito nei confronti dello scrittore santagatese. Riconosciamo almeno le sue opere. Riaccendiamo i riflettori sulla sua produzione letteraria. Quei libri che narrano niente altro che la nostra storia. Quella reale. La stessa che Strati ha vissuto sulla sua pelle e ha scritto con coraggio e sapienza, perché non venisse mai dimenticata. Ricordando al mondo che c’è gente che vive al Sud. E noi viviamo.
C’è una Calabria ancora oggi, che è madre di tanti Tibi e di tante Tascia. Per ogni Tascia che resta c’è un Tibi che parte. Per ogni Tibi che parte, una Tascia resta. La dualità tra il restare a Sud pur avendo desiderio di partire e il partire dal Sud, pur avendo voglia di restare.
C’è un’Italia che ha bisogno di ricondursi alle origini. E i libri di Saverio Strati sono una buona opportunità di rinascita. L’opportunità giusta per ricominciare a riprendersi se stessi partendo dall’appartenenza.
A un giovanissimo italiano, che volesse iniziare a innamorarsi di Saverio Strati, e dell’abbondanza della sua opera, quale fonte di conoscenza e scrigno di memoria, consiglierei, prima, di soddisfare qualche piccola curiosità sullo scrittore, informandosi su quella che è stata la sua vita di uomo calabrese e calabrese emigrato.
Ad un ragazzo delle scuole elementari consiglierei di leggere Il Natale in Calabria. Breve, conciso, definito. Per quanta dolcezza e tenera affettuosità contiene il Natale nella vita delle famiglie del Sud, così come viene narrato da Saverio Strati. Consiglierei invece a quest’età di farsi leggere da un padre o una madre, Tibi e Tascia. Per le conclusione, che giunti all’ultima pagina, entrambi trarrebbero allo stesso modo.
Ad uno studente delle scuole medie, consiglierei I Cari Parenti. Un libro dove diviene protagonista nel bene, nel male e nella satira quotidiana, l’essenzialità della famiglia, quale luogo di vita e di memoria. Unica fonte di appartenenza alla quale attingere per continuare la vita che da questa stessa famiglia parte.
Ad un giovane delle scuole superiori invece, suggerirei II Selvaggio di Santa Venere. Un libro forte, un premio Campiello, un eccesso di verità che Strati racconta con una saggezza e una tempra uniche. Un’opera scritta nel ’77 ma che oggi, nel 2015, risulta essere ancora il prodotto di una realtà tangibile ed esistente. Attuale. Una terra che inibisce. Una società che vuole adeguarsi a un sistema che però rende fragili soprattutto i giovani, irriconoscibili difronte a se stessi, i quali avvertono l’esigenza di un riscatto visto esclusivamente nella fuga da una terra che opprime. Una terra che però assieme ai padri, aspetta e spera. E ancora consiglierei La Teda, qualora si avesse desiderio di ascoltare, leggendo, i rumori dell’acqua, della fame e della miseria, che colpiscono un paese estremo come Terrarossa. Tutti libri che riportano con saggia semplicità alla quotidianità della vita vissuta. Una vita raccontata ieri che risulta essere pari e patti a quella di oggi.
A tutti i giovani calabresi invece, un consiglio di vita, come scrittrice e come madre: “pretendete di conoscere voi stessi. La vostra storia. Valorizzate il senso dell’appartenenza. Difendete Il Sud. Il Nord. Il paese, difendete. E che questo non sia solo luogo ma stato d’animo. Fatevi lasciare dagli altri un futuro migliore e non date mai in prestito il vostro perché questi se ne servano tragicamente. Pretendete che vi si insegni tutto di voi. Che vi si faccia conoscere le vostre origini. I fatti e i misfatti delle vostra terra. Gli uomini e le donne. I luoghi. I libri. Gli scrittori. Saverio Strati.
“- La lettura – diceva il maestro Michele – è un atto di coraggio. – Ricordate che leggendo sarete sempre un passo avanti agli altri – diceva. – I miei genitori non sanno leggere. Nessuno gli ha insegnato a leggere. Mio padre dice che la sua scuola è stata la terra. Non servono parole nella terra. Braccia servono. E duro lavoro. La lettura – dice – ti farà pure scienziato figliolo. Ma solo la terra ti renderà forte. Impara a lavorarla e capirai -. E io la lavoro la terra, signor maestro. Ma non mi accorgo di nulla. Ogni giorno dato alla terra, è una pagina di libro in meno. Un giorno senza storie è un giorno morto. Morto, capisce!? – La terra custodisce tesori quanto i libri, Leo. Continua a leggere. Insegna a tuo padre, nella terra, ciò che impari dai libri. Faglieli conoscere, i libri. Un giorno, vedrai, anche lui si accorgerà che i libri nascono tutti dalla terra. La stessa che lui omaggia e lavora. E quel giorno sarà orgoglioso di te, Leo. Di te che la sua terra, hai imparato come custodirla.”
Giusy Staropoli Calafati
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A FERA I SAN FRANCISCU -02 APRILE-

rrrrrrIl 2 di aprile era un giorno dell’anno che tutti attendevamo con ansia. Mentre in tutta la Calabria si festeggiava il grande Santo di Paola, al mio paese si apriva la fiera di San Francesco.
Noi bambini ci preparavamo già dal giorno prima. I mercatari, prima di sera, venivano per prendere il posto, e l’avvisaglia che ci indicava l’arrivo era il rumore dei ferri che liberavano sfusi sull’asfalto, e con cui costruivano i banchi per esporre le loro merci. Riempivano tutta la strada. E venivano da tutte le parti. Era una festa. La scuola rimaneva aperta ma vuota. Tutti alla fiera. E c’erano le gozze, le pignatte di terracotte, i panari e i cestini impagliati a mano, le sedie a dondolo di vimini. E poi le papere, i galli, gli uccelli e i pesci rossi. Le zappette, i lupini, le uova esposte nella carta del pane, ancora sporche del pollaio. tttttPoco più in là, i vestiti nuovi, le scarpe, i giochi appesi dentro le confezioni che il vento faceva oscillare e che sembravano sempre più impossibili da raggiungere. E poi le caramelle sfuse e gommose, il cocco, i biscotti e i mastaccioli. C’era gente dai paesi vicini ma anche da quelli lontani. La bancarella che più mi piaceva era quella di un vecchio mercataro che veniva da Soriano. Esponeva le sue cose dentro una vecchia cassa di legno, che se solo ci infilavi il naso odorava di miele e di dolce.
– Va ja mastro Micu e accatta i mastazzola – mi comandava mio nonno. E io andavo. Avevano tante forme diverse, quella più bella rappresentava San Francesco sopra un cavallo. Poi c’era l’asinello, il cuore, San Francesco a piedi col saio, i pesci… Al nonno prendevo i pesci. Il santo costava troppo. Il primo lo mangiavo sempre io. E a furia di masticare mi si indurivano le mascelle, ma il gusto era troppo forte. Poi con i miei compagni di classe, andavano al forno da don Gerardo. Mangiare la sua focaccia il giorno della fiera era un rito. Facevamo la fila. Un pezzo ciascuno e poi tutti i piazza al bar di Giuditta. Il gelato alla nocciola non poteva mancare. Ci preparava lei i coni, ed erano sempre abbondanti. All’ora di pranzo, si sentivano di nuovo i rumori dei ferri dei mercatari. La fiera era finita. Ognuno raccoglieva le sue cose. Mastro Micu, chiudeva la cassa di legno, con dentro i mastaccioli rimasti, Don Gerardo, chiudeva la porta del forno, Giuditta il banco dei gelati e chi aveva un parente che portava il nome del santo di Paola, tornava a casa per festeggiare.
Oggi è il due di aprile, è San Francesco e al mio paese c’è la fiera. È tutto cambiato, ma il mio paese e le sue storie, stanno dentro di me come il cuore nel petto. Così chiudo gli occhi e tutto torna com’era.
Ph Tommaso Prostamo

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Uovo GIGANTE, GIGANTI nell’uovo . Riffa anche tu e vinci i giganti.

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Non lasciarti sfuggire la sorpresa #GIGANTE.
***
Anche quest’anno tornano i nostri amici #giganti #Mata& #Grifone, e con una #gigantissima sorpresa.
Partecipa alla riffa del #GIGANTEuovo.
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Solo 90 biglietti. Estrazione il prossimo MARTEDì 23 aprile, primo estratto ruota dei giganti -G-, #Genova.
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Blocca il tuo numero e fa contento il tuo bambino. Rendi felice il bambino che c’è in te. <3
1 biglietto €10; 3 biglietti €25 😉
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IL VIAGGIO DELLE NUVOLE è una storia meravigliosa

#RIACE

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Al mio paese: DIGNITA’ NON ‘MUNDIZZA! –

11165210_893889714006841_7818859099797813739_nNon ho contezza di quanti siano in #Calabria, ad oggi, con esattezza i comuni commissariati perché sciolti per mafia. So per certo che il mio lo è. Ed è terribile per i piccoli paesi, dove tutti abbiamo la nostra vita, le nostre case, le nostre cose, e anche le chiacchiere quotidiane. Terribile perché commissariare un comune, oggi come oggi, vuol dire la fine dei paesi, a meno che non ti capiti un sant’uomo di prefetto che abbia a cuore qualunque posto gli venga affidato, perchè è dedito al lavoro e alla Patria. E non vuole essere un giudizio, tanto meno una critica a chi opera sul momento, non tocca a noi sindacare sul senso di responsabilità degli altri, ma oggi, su quanto vive, misero e abbandonato il mio paese, vorrei fare una riflessione a voce alta.
Vi è una terna commissariale, che peraltro personalmente non conosco, che si è insediata nel comune di #Briatico circa sei mesi fa, nei quali è inclusa una piena stagione estiva.
Da che la memoria mia ricorda, e in termini di memoria storica mi sento abbastanza forte, uno stato di abbandono così potente della mia città, proprio non lo ricordo. Incuria e abbandono appunto, disattenzione, menefreghismo, assenza millesimale di ordinaria amministrazione da cui, in ogni luogo, dipende la dignità del cittadino che vi vive. E l’opera fatta verso un paese, è certamente la migliore che un uomo responsabile possa fare, dopo quella verso un suo simile. I paesi sono ormai parte del creato, e come tali vanno trattati. Invece nulla par funzionare. Raccolta rifiuti da tempo ormai non effettuata, percolato e odori nauseabondi, come quelli dei ghetti, eppure un paese, Briatico, all’aria del mare. Cespugli spontanei ai torni dei marciapiedi e che adornano con insolenza, nello scempio più totale, la via del mare che dalla zona di Cocca porta oltre la marina, dove si erge peraltro uno dei lungomari più belli d’Italia. Perchè diciamocela tutta, abitiamo uno dei posti più belli al mondo. Siamo in bocca allo Stromboli, nel tepore del Golfo di Sant’Eufermia, nella mitezza del clima tipico della cipolla rossa, ma a nessuno fotte niente. Perché se esiste ancora, ed esiste, un terzo mondo, di questo passo noi saremo il quarto.
Mi sembrava di essere in una roccaforte, dopo che per mafia, l’amministrazione locale, veniva sciolta e arrivava in pompa magna lo Stato. Perché, chi meglio del suo Stato può tutelare il cittadino?
Qualcuno a questo preciso punto, potrebbe venir fuori e dire: parli proprio tu?
Sì, perché nella passata amministrazione uno degli assessori era mio fratello, e seppure non sempre abbiamo idee comuni, e neppure visioni politiche unanimi, il paese, cari voi che avete pensato alla domanda di cui sopra, è sempre risultato pulito, in ordine, come era giusto che fosse. E se qualche disagio si è verificato, nell’immediatezza è stato risolto. Mai problemi di igiene e rifiuti circolanti per le strade da impedirne in alcuni tratti la viabilità. Unico forse, Staropoli Carlo, a chi piaccia e a chi no, ad emergere per impegno e puntualità, senza mai sottrarsi al senso della responsabilità, a cui diverse e più volte, anche io, e non come sorella, ma da cittadina, ho richiamato. E sono i fatti a raccontar di cose e non io. Prendiamone atto.
Ma torniamo a oggi, non stiamo qui a parlar di ieri. Né di cosa è stato, ma di che sarà.
Che succede oggi? Cosa accade?
Oggi è un presente dai tratti assai complessi. Che se si ostinerà a resistere a tal modo, diverrà per noi inimmaginabile futuro e per i nostri figli, un illegittimo passato.
Conosco bene, la maggior parte dei lavoratori che operano per la pulizia del paese, e hanno sempre lavorato sodo per rendere dignità ai luoghi che noi tutti abitiamo. Ma se è vero che il lavoro nobilita l’uomo, il salario, cari amici, che spetta di diritto al lavoratore, è questione di dignità dell’essere umano.
Fino ad oggi, per scelta,non sono mai voluta entrare entrata nella questione politica del paese, ma se è vero che la politica fa cultura, allora oggi è momento di dire basta. Paghiamo finanche l’aria, ma dateci almeno, la possibilità di respirarla. E non è una richiesta, ma un semplice diritto che ci tocca.
Ho sempre creduto che lo Stato, quaggiù, potesse cambiare il mondo, ma non è questo mondo quello in cui nessuno di noi Briaticesi vuole far stare i propri figli. Mia madre e mio padre, mi avevano consegnato un buon paese, oggi invece ai miei figli rischio di consegnarglielo in rovina.E non posso permettere che accada. Nessuno di noi lo vuole. E forse è ora di riprendersi ciò che ci è stato sottratto: la dignità di cittadini di uno dei paesi più belli del mondo.
Porto Briatico, in percorsi itineranti in giro per l’Italia attraverso i miei libri, e la gente me la invidia questa venere beata con la sua torre antica, ma non mi accontento del sentirmi decantare le sue bellezze, perchè io so che quella stessa Briatico oggi pià che mai è malata di abbandono e solitudine. Come una vecchia rugosa è sconfinata là dove l’esistenza sua finisce, e comincia la morìa.
Serve mobilitarsi in coro, dalla chiesa, alla scuola, ai singoli cittadini. Tutti. Il tempo dei proprio orti mi sa che è finito. Rivalutiamo e riconquistiamo il nostro orto comune: il paese.
Una piazza così, quella in cui c’è la mia chiesa, dove mi sono cresciuta e ho giocato con i pesci rossi, sparandoci tra bambini le palline dei rami degli alberi con lo schicciambocci, non l’avevo mai vista.
L’agorà è la piazza, ed è il posto in cui la polis, la città, si ritrova, il centro da dove tutto parte.
Con questa riflessione a voce altra, dunque, chiedo che chi oggi ha il dovere di renderci un paese migliore, con la consapevolezza che nonostante le vicissitudini trascorse, siamo anche noi cittadini del mondo, si adoperi per farlo. Per dovere, ma soprattutto senso di responsabilità.
Se Briatico esiste ancora, se ha anche un solo motivo per continuare, allora alzi la testa. Non aspetti che arrivi chi, a far qualcosa.
Io VOGLIO un paese pulito, un mare dove dopo il sole possa specchiarmi dentro pure io, e voglio l’aria di sempre. Quella pulita, bella, senza pecche, senza fumi né cattivi odori. Un’aria da respirare insomma, proprio come quando ero bambina, perché qui ancora vive e abita gente per bene, che lavora, che ha famiglia e che non intende, per nessuna ragione al mondo, lasciarsi prendere il posto in cui sta, da chi di questo paese non sa niente.
E allora che si fa?
Ai miei amici e concittadini la parola. E che sia per costruire nuove conquiste.

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MIMO LUCANO È IL NUOVO SCANDERBEG

07/10/2018

COPERTINA-Giorgio-Castriota-Scanderbeg-opera-di-Odhisé-PaskaliOggi in una parte minuscola, ma bellissima,della Calabria, si fa festa. Questo piccolo ritaglio di terra è San Demetrio Corone, piccolo comune nato 550 anni fa grazie all’arrivo dei profughi albanesi in fuga dalla guerra. Per questa festa, a elevare come giusto che sia, il condottiero ed eroe Scanderbeg, arrivano il presidente della Repubblica Italiana Mattarella, e il presidente d’Albania Ilir Meta.
Col cuore gonfio di gioia e orgoglio, qualcuno (e penso al nostro governatore in primis) trovi un attimo di tempo e coscienza, per dire a Mattarella e anche a Meta, che c’è un altro piccolo ritaglio di terra in una Calabria non lontanissima da San Demetrio Corone, che si chiama RIACE, ripopolato 20 anni fa da circa 300 curdi, e che oggi mentre San Demetrio festeggia il suo popolo albanese e il suo eroe, laggiù il popolo curdo (del nuovo mondo) lo hanno costretto a partire e il suo eroe è stato mandato al confino. E alla festa è sopraggiunto il silenzio di una triste disperazione.domenico-lucano
Purtroppo la storia non è per tutti uguale. Non si ripete sempre per come dovrebbe. Alcuni certe volte, le più importanti, le deviano il cammino.
Oggi più che mai, il mio pensiero a #RIACE e al nuovo Scanderbeg Mimì Lucano.

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IL VIAGGIO DELLE NUVOLE di Giusy Staropoli Calafati porta #RIACE di città in città

  • 19 Ottobre, Siderno
  • 25 Ottobre, Ist. Compr. Mendicino
  • 26 Ottobre, Vibo Valentia
  • 27 Ottobre, Radio Valentina
  • 28 Ottobre, Petrizzi
  • 30 Ottobre, Liceo Scientifico G.B. Vibo Valentia
  • 09 Novembre, Stefanaconi
  • 10 Novembre, Soverato
  • 11 Novembre,Cetraro
  • 16 Novembre, Pizzo
  • 17 Novembre, Pedace
  • 18 Novembre Chiaravalle Centrale
  • 20 Novembre, Buongiorno regione, TGR
  • 24 Novembre, Guardavalle
  • 30 Novembre, Reggio Calabria
  • 01 Dicembre, Botricello
  • 04 Dicembre, Rombiolo
  • 07 Dicembre, Ricadi
  • 09 Dicembre, Miglierina
  • 15 Dicembre, Badolato
  • 16 Dicembre, Palermiti
  • 21 Dicembre, Castrovillari
  • 05 Gennaio, Santa Severina

date in aggiornamento continuo

Chiunque fosse interessato a incontri e presentazioni, per intraprendere insieme #ilviaggiodellenuvole, sospinti dal vento, con Mimì e Riace, scoprendo il senso di questa nuova umanità possibile, può contattarmi l’autrice sulla sua pagina fb, attraverso questo blog, o tramite la casa editrice.
Porta questo viaggio nella tua scuola, nel tuo paese, nella tua piazza, nella tua associazione o comune. E viaggia con noi.
Adotta #ilviaggiodellenuvole come narrativa nella tua scuola. Accompagnare i giovani in questo viaggio, verso una nuova umanità possibile, sarà un’esperienza straordinaria.

sidernovibo 1vibo2petrizziCHIARAVALLE
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RIACE È SORELLA DI ITACA

LLLLLLLLLL

Quanto sono grandi e quanto immensi, i padri? Quanto servitori e quanto servi? Quanta speranza danno, e quanta vita?

Riace è come un nido di rondini a primavera; un coccio di terra infreddolita, chiuso dentro i capricci del vento che scorazza di qua e di là impollinando il tempo che le sta attorno, mentre  s’alza dal mare, e soffia tra le casette rinsecchite coi tettucci bassi, le viuzze disadorne e i gatti persi. Frale come le foglie, che dall’albero le divide il vento, è una magra sentinella che non fa che aspettare, come i suoi vecchi, quasi finiti e spenti, il ritorno delle voci, i canti e i passi, i chiacchiericci tintinnanti dei bambini.

Riace, non me ne voglia nessun Dio, è la sorella di Itaca. Nessuno lo aveva mai detto. Nessuno mai lo aveva considerato. Come Itaca è  figlia della storia e della sua odissea. Loro, le insanguinate e le sanguigne città ribelli. Riace come Itaca. Le sorelle in cui scalpita il ticchettio del palpito mentre passano silenti le notti di luna piena ad attendere che verso di esse si compia il grande viaggio. E che sia arrovescio. Allorché gli dei riportino a casa il padre con il trionfo e la vittoria. Riace e Itaca sono due madri. Partorienti e sempre gravide. Con gli occhi rivolti al mare in attesa dei figli. Telemaco  attende nella sua Itaca. Conosce bene il mare, sa cos’è la sua rema. Telemaco attende suo padre. Ulisse e il suo ritorno a Itaca. Riace è figlia come Telemaco. Essa attende suo figlio che come Ulisse è padre. La casa di Telemaco e quella di Riace sono occupate entrambe dai proci. È importante e necessario che ritorni il padre, o tutto andrà perduto, la casa e anche la Legge. Solo Ulisse potrà liberare Itaca. Mimì, salvare Riace. I padri salveranno la terra e se questi non tornano tutto perirà. Gli uomini e le donne, i figli e le speranze.

Itaca e Riace, tenendosi per mano guardano il mare aspettando che qualcosa dei loro padri ritorni. La mancanza del padre è l’asfissia del desiderio, la caduta dei sogni, il rinnegamento della speranza. La figura del padre è testimonianza.TTT

Cosa desideri di più, Telemaco? Che torni “mio” padre. Cosa desideri di più, figlioletto di Riace? Che torni “nostro padre”. Chi è tuo padre, Telemaco? Ulisse. Chi è tuo padre, figlioletto di Riace? – Mimì.

Ulisse era la forza che serviva a Itaca e a suo figlio Telemaco per liberare la loro casa dai proci. Mimì è la forza che serve a Riace e ai figlioletti che ci abitano, per liberare i loro cuori dalla paura. La figura del padre, spesso evaporata, smembrata, è invece esaltata e resa forte nella storia di Ulisse nel suo ritorno a Itaca. La stessa figura del padre, spesso svilita e a peso zero, è necessaria e acclamata nella storia di Mimì che i proci, oramai diffusi, trattengono altrove.

Mimmo Lucano è un padre per chi arrivando, ha ridisegnato Riace come paese nuovamente possibile. Come Ulisse, salverà Itaca, i proci verranno sconfitti, e Penelope sarà di colui che l’ha sempre amata.  Penelope è la vita. La vita di figli come Philip, Gabriel, David, Aman, che proprio a Riace, oggi hanno la loro sola e unica Itaca. E se i proci non finiranno la barbarie nella loro casa, a chi toccherà spiegargli chi questi barbari sono e perché sono venuti? A Itaca e a Riace responsabile del viaggio è sempre il vento. Nessuno può fermare il vento, specie se soffia per ricominciare a vivere. L’opera pubblica più bella è salvare chi scappa dalle difficoltà e dalla guerra. Un’opera così non perirà mai. E Riace non può essere rovinata. È questione di umanità. Un fattore umano.

Ulisse è tornato. Itaca è salva. I proci sconfitti. Riace invece è rimandata alla storia.  Chi pagherà per ogni figlioletto che piange? Non le grida dei proci, ma il pianto, provocato, dei bambini distruggerà il mondo. E se va giù Riace, andrà con essa, più giù ancora,  anche Itaca. E le maledizioni di Ulisse e degli dei, saranno troppe da poter pagare tutte in una sola volta e solo sulla terra.

 

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Inizio tour romanzo IL VIAGGIO DELLE NUVOLE

ggIl vento continua a soffiare. Ecco dove spingerà #Riace nelle prossime tappe con #ilviaggiodellenuvole (ancora in fase di aggiornamento).
Per info incontri e presentazioni è possibile contattarmi in privato. 
– 25 Ottobre Mendicino
– 26 ottobre Vibo Valentia
– 28 Ottobre Petrizzi
– 09 Novembre Stefanaconi
– 11 Novembre Cetraro
– 16 Novembre Pizzo
– 20 Novembre Rai 3
– 04 Dicembre Rombiolo
– 15 dicembre Badolato

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