SETTE ANNI SENZA SAVERIO STRATI

-Sant’Agata del Bianco 16 agosto 1924/ Scandicci 09 aprile 2014-

UpkPfA5XLjiK3XSZUDjqBDjfNP5B3ZV4ZgHtASlJCcI=--Saverio Strati esordì nella sua carriera di scrittore con un racconto. E con un racconto, animato dai suoi per¬sonaggi più amati, va il mio saluto al maestro, che così avrebbe voluto essere ricordato dai “suoi” calabresi.
«Quell’aprile, era già passato un anno. Un lungo anno. Uno esatto dalla morte del maestro.
Ma il nove di quel mese, sembrava essere una data come tante. Calendarizzata per inerzia assieme alle altre.
Sembrava non importare a nessuno di quel lutto che un anno prima, lo aveva deposto, con i piedi in¬nanzi, in una Firenze lontana e bellissima. O forse nes¬suno si era accorto mai della sua morte.
– Certo! – disse Cicca – Chi non si accorge della vita di certi uomini, non potrà accorgersi mai della loro morte. E aveva ragione.
Seppure con una testa contadina, Cicca aveva ragione. E mi venne improvvisamente da chiedermi: che cos’è la cultura? A chi ap¬partiene la cultura? E di questo o d’altri mondi la cultura?
E ricordando in un’ariata d’appartenenza il maestro, giunsi a dir che la cultura appartiene alla terra. Di che mondo e mondo, tutta alla terra. A quella mite che per dirla con la nostranità del cuore, quando giorno di Gali¬lea se ne sta con la famiglia in mano, resta il solo pezzo di Sud che preferisco.
A quella stessa terra della quale il caro Saverio aveva fatto lenti per leggere il mondo. E ne aveva scritte di pa¬gine lui, trattando la tenerezza e la durezza della terra. Quella più secca e arida. Quella più sola. La più dispera¬ta, spigolosa. La meno illustre e tutta romantica fin den¬tro il suo nome. La terra del Sud.
Quell’anno di morte, era valso tanto quanto i suoi novanta di vita. Tutto e nulla. Nulla e…
Tempi di rinuncia e fame. Tempi fatti di anni a som¬me dispari e pari, trascorsi nella solitudine chiassosa dei pensieri ritrosi, delle parole schive, alternati, come fosse¬ro canti di cicale, a silenzi immani, immensi e grevi. Ru¬mori muti, di pagine riaperte e copertine smisuratamen¬te grandi, rinvenute in alcune memorie sì e in altre no.
Cicca, aveva conosciuto il maestro. Da lui aveva im¬parato che cos’è una Teda. Avevano percorso assieme la via di Africo. A Campusa, aveva visto risorgere l’anima delle case dei poveri cristi, cadute giù per terra nella sibi¬lante tempesta d’acqua del ’51, nella bocca calabrese del professore. A Sant’Agata invece, quando tutti lo credeva¬no altrove, il vecchio Saverio c’era. E solo Cicca lo sape-va. E quando v’era, gli scandagliava la memoria. E impa¬rava Cicca. A conoscere il paese, il Sud, se stessa. Impara¬va a conoscerlo, Saverio.
– Aveva paura, il maestro. Paura di non riconoscere il paese. Timore assai, di non essere riconosciuto. – mi dis¬se Cicca, nella confidenza che tra di noi si stabiliva.
– Ma come può un uomo così non essere riconosciu¬to, eh Cicca?
– Può Michele. Un uomo così, può non essere ricono¬sciuto. Quando un uomo così viene nominato codardo, quando un uomo così viene definito ’mpamu, può. Fi¬dati che può. Può non essere riconosciuto.
Cicca mi fece venire la pelle d’oca. Parlava come se il maestro fosse dentro di lei. Le vivesse dentro le carni. Nel ticchettio del cuore.
– Non è onesto… – continuando, con gli occhi tanto lucidi e cupi – non è onesto dimenticarsi di certi uomini né vivi né morti – disse.
– Saverio Strati è impossibile, dannoso dimenticarlo. Ha scritto la storia del Sud denunciando lo stato croci¬fisso in cui questo è sepolto vivo. Ha parlato degli ulti¬mi condannando i primi. Ha raccontato di uomini e non di numeri. Ha avuto coraggio, il maestro. E il Sud non ha coraggio, Michele. Se un giorno dovesse mancar¬ci la terra sotto i piedi, che faremo? Che faremo, eh Michele?
– Non lo so che faremo. Dimmelo tu, Cicca. Che fa¬remo?
– Moriremo! Ecco che faremo. Moriremo scoraggiati. Con basti carichi d’ignoranza moriremo, Michele. Mori¬remo senza neppure sapere se siamo mai appartenuti a una pagina di storia.
– Quale storia, Cicca? Quale storia?
– La storia che il maestro Saverio ha scritto e noi non abbiamo letto. La storia del Sud, Michele. La stessa del maestro, quella del contadino letterato, del muratore del¬la scuola. Il racconto dell’uomo calabrese, il maestro di Cicca. Sì, il mio maestro. Il mio maestro, capisci Michele?
E nel giorno della morte, quel giorno, nessuno oserà accenderci neppure una teda. Niente luci quaggiù. E sarà dannata l’anima di chi non ha imparato. Imparato dai libri. Dai suoi libri.
– Cicca, tornerà in paese il professore, prima o poi?
– Michele, tu lo sai che dopo la morte non torna mai nessuno?
– Già!, hai ragione Cicca. Dopo la morte non torna mai nessuno.
– Ti sarebbe piaciuto conoscere il maestro Saverio, Michele?
– Sì Cicca. Mi sarebbe piaciuto.
Cicca mi prese per mano e correndo, mi portò fino a Piazza Libertà. Addossate alla ruga grande, ci stavano ca¬sette basse a fila. Infilando la chiave nella serratura della porta di quella più giallognola – Accomodati! – mi disse, ed entrammo. Il sole faceva luce ovunque.
Indicandomi con la mano tutti i libri risposti in ma¬niera composta nella libreria addossata alla parete destra della casa, aggiunse: – Ecco il maestro, Michele!
Mi guardai attorno stupito. In paese non v’erano tan¬ti uomini, per quanti libri mi trovai innanzi.
Vidi che ogni libro portava il suo nome: Saverio, Sa¬verio Strati, Strati Saverio, o Strati soltanto.
Cicca accarezzava le copertine come fossero visi di bambini.
– Allora Michele, che te ne pare?
Gli occhi di Cicca brillavano.
Aspettava che dicessi qualcosa.
– Allora? Cosa vedi Michele?
Me lo chiesi anch’io: – Che vedo?
Cicca sfilò dallo scaffale un libro a caso. Con voce potente, lesse l’ultimo tratto: “In un minuto la casa fu piena di vicini. In poco si diffuse la notizia della morte di Rocco e della pubblicazione dei suoi libri”.
A parlar del maestro si commuoveva la contadina, che prese a rassettarsi le trecce nere. Era come una regina della terra quella Cicca di Terrarossa.
Non resistetti. Passai un dito su quelle copertine an¬ch’io. E nel mentre che un bacio di Cicca finì per rag¬giungermi la bocca, finché ero ancora in tempo, affinché non fosse troppo tardi: – Chapeau Saverio!».
12096484_974709322591546_8361701807863950994_nI libri di Saverio Strati, risultano essere tutti una buona opportunità di crescita. Un lampo di genio capa¬ce di proiettare a chiunque ne faccia uso, un ottimo fu¬turo. Perché è lì, tra quelle pagine che sedimenta il senso dell’appartenenza. Sono libri e sono villaggi vi¬venti di autentica memoria. Una memoria che ha buone probabilità di diventare collettiva quando, leggendo, una comunità ha voglia e coraggio di sommare un certo nu¬mero di memorie individuali.
gsc

SETTE ANNI SENZA SAVERIO STRATIultima modifica: 2021-04-09T11:04:43+02:00da giusystar99
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