CONFESSO CHE VIVO AL SUD

E confesso che vivo al sud.

Vivo al quarto piano di un palazzo del sud, da quarant’anni, circa, quasi, con quattro figli e un mare che da allora lo vedo alzato più di quattro dita e non si ferma. E si fa di mareggiate la sua vita,  da dar spettacoli all’aperto senza cercare soldi a chi lo guarda. E su di esso se ne fanno di fantasie e scommesse!

Vivo al sud, in un paese, che dopo il terzo, pare il quarto mondo per antonomasia,  per le cazzatelle che combina e somma alle sventure che gli imbattono per combinazione.

E dopo la terza traversa andando verso il mare, che spiaggia occhi di canna alla rinfusa , nella quarta, in una messa ad angolo perfetta, risiede alto,come un gendarme armato, il mio palazzaccio bianco e nero, passato agli annali della storia  per il suo starsene a nasca all’aria, in bocca a Stromboli, sul picco dei tramonti, a ogni stagione, che di ore ne governano a dozzine. E se ne vanno al vento , pari e dispare, fin su la solitaria meridiana, d’un’altra casa mia, portata in dote, antica, i petra e tahju, e impaccita per i canali, clic e clac, che gli piovono d’inverno e il caldo che d’estate me la coce in piena fronte, sul corso  principale del paese, a mezzo passo dalla chiesa matrice e il campanile con  tant’anni addosso, che pare non sentirne nemmanco uno, tanto suona e risuona ogni mattina, e la domenica tintinna un din don dan di lusso,  spaccone poco e riservato come quello delle spose tranquille, di maggio e di settembre.

E in quarant’anni, circa, quasi, non ho mai chiesto al mare, un sol piacere che non potesse fare, e nemmanco la cortesia, da paesana, di rallentare la sua rema, mettendogli a tacere, il tran tran dell’onda  sua battente. E rumoreggia H24, senza sosta, alzandosi sul collo della spuma, con zattere in andata e altre in ritorno, zeppe di pensieri , che l’acqua sua frusciante, prende e mantiene a memoria nel suo abisso, a notte fonda.

E a ogni cambio di mezza giornata, guardo con gusto, oltre i due quadri di vetro che dalla mia cucina mi prospettano, un niente assurdo che s’accoppia da ogni lato all’orizzonte  e a un mare che di mediterraneo ha colori e suoni riconducibili ai miti e alle leggende, contenute da secoli in riserve memorabili che appaiano impossibili da consumarsi prima o poi.

E dall’angolo di un terrazzino, messo di fronte al sole e di spalle al mare, che tutto quieta ma il remigare suo non ferma mai, mi gusto, starsene supina e pensosa, una naiade, ferma lì, a fantasticar con me, alla fontana che bevvi da bambina, ancora cretta e più biondina, con una peluria che me la sfottevano a scuola e in giro in giro, i miei compagni delle elementari, che in un  pensiero mio veloce, raggiungo ancora  in pieno.

E sul balcone, fiorito di gerani, si posa, scampanellando, il tintinnio del sole, che spia le mosse dei passeri e dei bambini, rimasti, pochi e niente, a chiacchierare.

E dal quarto piano, del mio palazzaccio bianco e nero, guardando il mare che non finisce mai, vivo al sud e sembra l’eden…., e il belvedere di casa mia, porta affisso un cartello, intorno al collo: “proprietà privata”, forse. E mi sazio di quell’aria che non finisce. Che d’inverno cresce e scrosce e d’estate , scirocca e s’assopisce.

E a scendere le scale, che l’ascensore è un film che non si gira che pare che non si trovano registi, rasento le strade, le vie annomate a questo e a quello, fuori e dentro la quarta traversa, quattro metri in avanti e altri quattro indietro, e percorro a scendere e a salire rampe di gradini, avanti-casa,  che nemmanco la voce sembrano avere più. E le vedo invecchiate,  stanche, quelle stradine di pietra che  percorrevo , un tempo, a sette anni, a piedi, per andare a scuola, infiocchettata con il grembiulino blu e il colletto bianco, e che oggi percorro in macchina, botta di lampo, (mancu nu passu a scaza si faci chjù)  per accompagnare i miei figli che di anni ne hanno a varietà: dodici, nove, sei, tre; che pare di giocare all’enalotto.

E son le strade cotte e mangiate, da chicchessia, in cent’anni e più di questi, che portano dal fornaio fino al fruttivendolo, dopo l’ufficio postale, a lato della banca che non c’è più, fino davanti la casa del comune, dove più d’uno si è mangiato osso e mastr’osso di cani e cristiani.

E tutto sa di tutto e anche di niente, e io ci vivo…

Ma in quel palazzaccio bianco e nero, al quarto piano, nella quarta traversa, a quarant’anni, circa, quasi, con quattro figli, fremo e tremo, ché il tempo passato non torna e quello che c’è è già finito…

La casa della scuola, per esempio, (che dove c’è ignoranza Dio ci manca)intestata a un sommo uomo, colto di che visse a che ci è morto e pure dopo,  che prima nel giardino produceva, al naturale, altro che bio, margheritine per la camomilla, tali quali a quelle di mia  nonna, che lavava con gli impacchi tutti i figli, ora puzza di fumo per quella malanova di sigarette che si fuma come una dannata, senza aspettare di diventare grande.  E brucia tappe e toppe come vampe di fuoco che nemmanco il Padreterno, a pregarlo, le può tornare, un giorno. Si incanna dal sole al tramonto ed è allucinante il suo bisbiglio, incredibile la sua cera, particolarmente sfusa e sparigliata la stabilità su cui si puntella quando s’accorge di tremare e prende coscienza che se cade, da terra non s’alza più com’era. Povera ciòta! Che se inciampa, (e a me pare che si è già fottuta per più della metà), si strafotte pure il dialetto( che ancora –per poco- le riesce bene), e la sola possibilità che ha di insegnare tanto  ai giovanotti perché questi ne sappiano di più da grandi. Ché non sempre è carnevale…, e le chiacchiere van bene!

Peccato però che quel che sa, in faccia al mondo, non lo ricorda. E un paese che non ha memoria e si mangia per rabbia, a pranzo e a cena, la sua storia, nemmeno morto trova pace.  Nemmeno morto…!

Eppure, io ci vivo, qui, al sud. Ci vivo con la nomina, forse,  di scimunita,  che a quarant’anni, con quattro figli, ha ancora mille sogni. E ci resto, perché  mi sento d’essere in dovere, verso mia madre  e nei confronti di mio padre e  sento d’essere ancora in tempo, e lo sono, di cedere al paese, il mio paese, un pezzo di cuore, del mio cuore che batte, per riportarlo in se stesso, in  vita, e passarlo sanizzo , battezzato e santo, in eredità ai miei figli. Con una meridiana felice della sua vecchiaia che segna le ore da mezzogiorno a mezzanotte, un mercato e una bottega in più, che non c’erano prima, una scuola con margheritine per la camomilla in ogni classe, tanti giovanottini e signorinelle seduti nei banchi volenterosi di sapere, infinite pagine di cultura con le mille essenze del tempo  e fumi di scienza che escono dalle  teste, in tante troppe teste, perché domani questo paese sia primo, tra i più belli del mondo.

E allora, io ci sarò ancora, spero,  a vivere al quarto piano di un palazzaccio bianco e nero, con quattro figli fatti uomini, a più di quarant’anni…, confessando ad altri che vivo al sud e tanto che l’amo, non potrei lasciarlo mai!

giusy staropoli calafati

CONFESSO CHE VIVO AL SUDultima modifica: 2013-02-07T16:47:00+01:00da giusystar99
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