SAVERIO STRATI,IL MIO MAESTRO CARICO DI LIBRI di Giusy Staropoli Calafati

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Ero appena una cotrarella di quinta elementare. Dieci anni d’anagrafe e di vita e meno del triplo i chili che portavo tra pelle, ossa e capelli cadenti fin sopra l’osso sacro, lunghezza alla quale mia madre mi condannava, quando un mattino come tanti con il sole a brucia pelo alle finestre, la maestra Angela venne in classe accompagnata da una sorta d’uomo forestiero, dalla tempra pulita e il panciotto tra il dottore e il tamburino. -Vi presento un nuovo maestro- disse. –Lui è Saverio Strati- continuò picchiettando con la penna rossa sul bordo estremo della cattedra, catturando la nostra attenzione il doppio del suo solito. Una minnuta stranezza si posava para su tutti noi. Ci guardammo in faccia con l’impaccio timido dell’età genuina a muso chiuso. Serrato. Tutti, l’uno con l’altro. Pure Garrone, che con il libro Cuore, non aveva niente a che fare. Solo un caso il suo nome. Forse un nome per caso. Ma chi poteva essere mai questo Saverio Strati? Era come minimo un maestro reale. Distinto. Quasi ci appartenesse quell’uomo che veniva da fuori portando sottobraccio un carico di libri mentre altri ancora li teneva nella borsa che reggeva con due sole dita, incastrate sotta la manica del suo impermeabile beige. Lo stesso che portava il maestro Andrea nelle riunioni di classe. Il bavaro identico, rigorosamente alzato. Impennato sopra il collo e sotto il mento perfettamente sbarbato. Il maestro Strati, assai riservato anche nei gesti perpetui, mossi d’istinto, era di statura di gran lunga inferiore a quella dei Bronzi di Riace, dunque un guerriero non lo poteva essere. I capelli erano radi sulla parte centrale del capo mentre gli si infoltivano bianchi su entrambi i lati del cranio. Uno di cultura doveva esserlo sul serio e non tanto per la forma del capo a mandolino, ma bensì per quell’abito doppiopetto, lucido, che portava. Batteva sul grigio, forse un fumo di Londra. E con la tempra di chi conosceva tutto di noi, come un contadino conosce palmo a palmo la sua terra, tenne banco, lui e solo lui, per una mattinata intera. La maestra Angela non aprì bocca. Non ne fu capace. Difronte al nuovo maestro, si sentiva impotente. Risoluto come solo gli uomini d’intelletto sanno essere, ci parlò di cose belle, quel mattino, Saverio Strati. Ci tenne una lezione vera, di vita, leggendo e raccontando delle sue ‘Fiabe calabresi e lucane’, scelte da dal nostro illustre concittadino il Prof. Luigi Maria Lombardi Satriani, e tradotte da Saverio Strati. Ah!, che cosa fina il paese di Jofà.

Che bellezza! La mitezza della sua voce, rendeva ogni racconto profano, sacro; saporito come il pane fatto al forno nelle contrade dei paesi; identico al colore della terra e non solo per il senso dell’appartenenza che con noi spartiva come fosse peso di bilancia, ma per il fatto che ogni cosa che Strati aveva saputo scrivere, veniva dalla terra. Pescava parole dalle sue viscere , spremendole le mammelle, cosicché diventava lui stesso la terra. Quella terra lasciata, forse per la voglia di non dimenticarla mai, -così come a tanti era accaduto- e che lui ritraeva pari e patti alla Madonna di sua madre, scoprendole il petto bello che aveva, assieme gli altarini scarni delle bestemmie, raccontandola come se dentro ci fosse, ma rimanendone fuori.

E da allora, ne sono corsi di anni, sopra la mia testa e la sua. Sono passate milioni di stelle, di cieli se ne son visti diversi e di soli al tramonto altrettanti. Lui però, Saverio Strati, non si è rivisto più.

Mai più…, fino a quando, mi ritorna a trovare con lo stesso desiderio di sempre per quella Calabria imbastita a sangue dentro il mio ed il suo cuore, la stessa che lui non aveva smesso di ricordare e mai poteva finire di raccontare. Lo rincontro una mattina in libreria, Saverio Strati. All’ombra secca e sdossata, del paesello del sud. Cercavo, tra le milioni di copertine rigide morbide e silenziose, un libro che potesse soddisfare la voglia di lettura che mio padre avvertiva notte e giorno, e perlustrando tra gli scaffali sbuffati e scomposti di una libreria antica, trovai l’oggetto della mia caccia al tesoro. Una copertina grigiastra, poco fumo di Londra questa volta. Un Saverio Strati, che posava con l’abbondanza della penna in mezzo a ‘Tibi e Tascia’. Chiunque avesse avuto modo di vedere il mio pianto davanti a quel libro, avrebbe per certo misurato in giusti termini la mia follia. E io che non ci speravo più. Forse perché quell’esperienza così lontana si era persa nel tempo. In maniera illecita certamente. Ma comunque persa. E rincontrare Saverio Strati in un libro così autentico, fu l’occasione della mia vita. Perché, crescendo, il senso dell’appartenenza per me, era diventato come la forza per Sansone. Ed è da allora che io e il maestro, non ci siamo lasciati più. Ci rimbattemmo infatti, l’uno nell’altra, da lì a breve, con ‘Il selvaggio di santa Venere’, con il quale maturai la concretezza di uno sposalizio, il nostro, fatto per procura: Calabria-Firenze(Scandicci). E poi quante altre volte, quanti altri libri….

Presa dalla famigliarità natale che ci imparentava, scrissi più volte allo scrittore italiano nato in Calabria.. Gli scrissi di cose che mi venivano dal cuore ogni volta che aprivo un suo libro e leggevo delle cose di casa mia. Tutte cose di casa fatte di famiglia, scriveva Saverio Strati. E gli scrissi pure quando in questa epoca così moderna mi trovai a formare un gruppo con tanta gente, sua e mia, nostra, sul social network di Facebook intitolato al maestro. ‘Rileggiamo Saverio Strati’, doveva essere ( e lo è) un gruppo capace di richiamare ognuno all’importanza delle proprie origini, della storia del suo popolo, della sua lingua, riconducendo, attraverso la lettura dei libri di un grande scrittore come Saverio Strati, le nuove generazioni al recupero di se stesse, conoscendosi e studiandosi. Un monito a quell’Italia letteraria poco attenta, a quella Calabria sbruffona che si scorda spesso di che lievito è fatto il suo pane. E infine un mio omaggio personale, a quella sua visita inattesa, dentro la mia scuola, che porta il solo rammarico di non riuscire più a ritrovare quel libro che aveva donato a me come agli altri e che portava la sua preziosissima dedica. L’autografo del nuovo maestro. Le mie lettere però, furono sempre di sola andata. La sua malasorte, l’abbandono, la malasalute, lo avevano convinto a voler stare lontano dal mondo. E questo perché il mondo lo aveva allontanato prima.

E per tutto questo, oggi, voglio continuare a chiamarlo maestro. Oggi che nonostante Strati è andato via da questo mondo per l’ennesima volta in punta di piedi, mi sembra di raggiungere ancora l’eco delle sue parole. La saggezza della tempra del contadino laborioso, del muratore intellettuale e dello scrittore meridionale. Quando appresi della sua dipartita, ah povera me!, piansi amaramente e con me pianse la bambina che io fui al nostro primo incontro. Fronte a fronte, occhi negli occhi. Una diatriba che sapeva non poter finire mai, per lo strascico che dentro la mia anima di cotrarella calabrese, aveva lasciato senza che io lo volessi e neppure in alcun modo lo cercassi. Incontrare, leggere Saverio Strati è stato come mettere in cornice l’arazzo che mia madre mi aveva regalato partorendomi al sud. I suoi libri, altro non restano che la giusta guida alla ricerca della mia(nostra) storia. La storia di un popolo ultimo e di una terra malata cronica di ‘ndrangheta. La sua morte corporale, l’appresi dal sindaco della sua Sant’Agata del Bianco, dove Strati ci era nato e per la quale fu sempre il concittadino illustre misconosciuto. E a catena, altri l’appresero anche da me. Una grave perdita, un lutto che mi ha toccata, dentro mi ha toccata. Perché era parte della famiglia Saverio Strati. Noi calabresi siamo sempre stati nelle sue storie e lui era il padre della storia che ha sempre raccontato al mondo raccontandoci, pur senza odor di allori. Perché come altri lui un profeta in patria non lo era mai stato. Non lo fu da vivo e nemmeno da morto potrà esserlo mai. Ma giustizia gliene porteranno i suoi libri, quelli sì che ne faranno di storia. La sua solitudine è stata perenne, una matassa che da solo l’uomo non ha saputo sbrogliare, lo scrittore nemmeno ci ha provato. Eppure teneva sempre il bandolo tra le sue mani. Mani intellettuali, mani sporche di terra e di lavoro. Mani callose, capaci di salutare per una partenza, e pronte a stringere un saluto per un arrivo. La solitudine scelta dall’uomo è stata quella maledetta dello scrittore. E quella dannata dello scrittore è stata quella scelta dall’uomo. Ma nonostante la pena che la morte fa, chiunque essa incappi, oggi a qualche giorno dalla perdita che il mondo della cultura ha avuto e la Calabria ha patito sulla sua carne, mi chiedo se i calabresi hanno il coraggio di piangere. Mi domando con pugni in faccia e calci alle ginocchia, perché i grossi grassi e grandi autori calabresi col vento in poppa, intellettuali di spessore, come recitano i giornali, non sceccareji di paisi comu a mia, non hanno speso una parola per lo scrittore di Sant’Agata del Bianco levato controvento, a piedi avanti nel tempo più solingo e muto. Mi chiedo perché le istituzioni calabresi, nonostante i mille e più vari e svariati ‘atti impuri’ commessi da chicchessia tra le varianti dell’africo o del grecale andando e venendo da Sant’Agata a Scandicci, e credetemi non c’è trippa per gatti, neppure lo spillone del lutto si sono attaccati alla giacchetta disertando a viva voce, il funerale non di uno scrittore con le palle scoppiate dagli anni, ma di un uomo, un conterraneo che la Calabria l’ha scritta, amata e vissuta da morirne. Ma chi ‘rrazza simu nui calabrisi? Chi potrà mai rivendicare l’umiliazione subita dall’uomo e l’abbandono dello scrittore, che hanno fatto martire un GRANDISSIMO intellettuale-operaio come Saverio Strati?… ‘Rrazza malata e ‘ngorda simu…..! E le morti dolenti ne danno atto…..

E resta dannata a vita la casa di mio padre. Hai voglia di intelletti scritti sui libri! La Calabria è una terra che non sarà mai mansa. Ha l’uovo in culo come la gallina ma non riesce mai a contare le sue penne. Quelle, i calabresi, gliele contano una ad una alla gallina del primo forestiero che gli viene. Questo è tutto! Tutto triste. Troppo triste. Triste assai. Tristissimo.

Perché cari amici, è davvero con immenso dolore e grande commozione di donna, di calabrese, di italiana e di scrittrice di questo dannato e amato sud, che ricordo a me stessa e pure a voi, che lo scorso 09 aprile, in quel di Scandicci, è venuto a mancare alla Calabria, all’Italia, alla letteratura mondiale e pure a mia padre e a mio padre, il profondo calabrese, l’illustre maestro, il magno scrittore e l’uomo devoto alla terra sua e alla mia(nostra): Saverio Strati. Un vuoto grande. Uno di quelli che potrà essere colmato soltanto con la lettura di un libro. Un libro qualunque del maestro.

A SAVERIO STRATI “ scrittore dimenticato”

Accendete le luci:

lo scrittore va in scena.

Pellegrino sopra i fogli più bianchi

dove canta i parenti e la terra,

volteggia cinto in capo di corone dorate.

Quanti plausi e recite a lui dedicate

ma cala il sole poi e lui cade.

E sanguinano le sue mani

I suoi occhi deserti di sale.

Una danza di voci lo incanta

divora l’inchiostro delle pagine scritte

e lui, guarda.

Incapace , incompreso continua a guardare.

Il sipario si chiude

la scena si svuota,

spente tutte le luci

l’ombra cala e si posa.

Ora è seduto lo scrittore

esiliato sopra il braccio del tempo

Piccolo, povero

coltivatore delle pallide terre

rimaste inchiodate dentro i venti del sud.

Senza penna né foglio

senza mani né piedi

senza occhi né bocca.

Il corpo pieghettato e rugoso

senza ali né piume , gira aria tra le mani impaurite.

Abita al buio ora quello stesso scrittore

tra le paludi e le cere più pallide

lo spettro delle mille e più luci passate.

Dove è disabitata la terra

mai percepita la voce

letta nessuna sua riga.

Abita tra i ricami ingialliti

e le muffe sui libri ora

senza fodere e nessuna cornice.

Racconta alle mura dei cementi

impastati dentro i secchi più svegli

e le medaglie dalla ruggine oramai, sole e arrese.

E quella terra, la sua , nel sud del sole

quella stessa mai più calpestata

ancora legge e non scorda

gli abbracci e la gloria,

gli affanni e la pena

e per lo scrittore a porte chiuse

scrive di pugno l’ultimo libro…

E dopo ancora canta

mentre di lui si consuma lenta

l’ultima pagina d’inchiostro, l’ultima goccia.

E dello scrittore cade a terra la voce

e il mondo tace e non parla.

Giusy Staropoli Calafati

SAVERIO STRATI,IL MIO MAESTRO CARICO DI LIBRI di Giusy Staropoli Calafatiultima modifica: 2014-05-09T10:20:53+02:00da giusystar99
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