AdDio PADRE MAFFEO PRETTO – IL PRETE MISSIONARIO SCALABRINIANO STUDIOSO DELLA CALABRIA. BRIATICO E FAVELLONI IN LUTTO!

p maffe con l'avvocato antonella nataleLo scorso 10 giugno, padre Maffeo Pretto missionario scalabriniano nelle comunità di Favelloni e Briatico, direttore del centro studi GiovanBattista Scalabrini, torna alla casa del Padre.

La Calabria è una terra che nei secoli, venne sempre guardata, se non addirittura giudicata, o troppo dall’alto o decisamente dal basso. O dai troppo ricchi, o dai sinceri poveri.
A vederla invece dal punto di mezzo, quello precisamente vicino al cuore dell’uomo e a quello della terra stessa, ci ha provato un semplice prete missionario, giammai ricco di oro, ma neppure povero, portando con sé il breviario del Signore. Un viaggiatore mandato a compiere missioni tra gli uomini del mondo, ma soprattutto tra gli ‘eroi’ di Calabria, dove pianta profonde radici.
Padre Maffeo Pretto, alla fine degli settanta del ‘900, inviato dalla sua congregazione, incontra la Calabria, cogliendone subito la sua intima fragilità e la delicata bellezza. Erano i tempi in cui i viaggi dei calabresi, significavano la soluzione al pianto e alla fame dei figli, e i padri, una volta sopra i treni, venivano chiamati emigranti.
Il giovane missionario è attratto dall’epopea dell’erranza che piega la terra bruzia. Vorrebbe fermarne l’emorragia, ma la Calabria va prima compresa, studiata e infine ricercata dentro sé stessa. E allora la prende con sé, e le porge la carezza del Padre. E si offre, totus tuus, alle piccole comunità che incontra durante il suo viaggio, e si pone soprattutto all’ascolto, senza distanze, ma soprattutto senza paure. Con autentica integrazione. A mani nude dentro al sacco, al netto dei pregiudizi, lontano dagli stereotipi, evangelizzando la pietas del popolo che va incontrando, e analizzando, a introspezione, l’identità storico-culturale di una terra a volte promessa, altre decisamente impari.
Come Cristo sopra la croce, Padre Maffeo, smaniante della conoscenza dell’altro, china il suo capo su cataste intere di libri, ricostruendo con minuzia e fedele devozione, storie, mutazioni e vita dei popoli calabresi.
Con sacrificio e dovizia, nei suoi anni intensi di missione “calabra”, rintraccia e poi scrive, lasciandone viva memoria ai posteri, un mondo che si andava mano mano modificando. La vita dei contadini, il bisogno degli infanti sgravati durante il lavoro nelle terre, gli usi e i costumi dei lavoranti nella campagna meridionale, le consuetudini delle madri e quelle degli uomini all’anta, le miriade di tradizioni e i significati profondi delle feste patronali. Ma soprattutto la pietà popolare, di cui Padre Maffeo fu un grande e ineguagliabile cantore.
Da autentico figlio del beato Giovanbattista Scalabrini, scrive il suo editore Demetrio Guzzardi, Padre Maffeo, con i suoi eccellenti studi e le sue mirabili opere librarie, ci conduce per le strade dei paesi di Calabria, aiutandoci a scoprire cose, persone, episodi, modi di vivere, che meritano di essere conosciuti, interpretati, rispettati e soprattutto tramandati.
Un ‘non calabrese’ che diventa però linfa essenziale per la Calabria. Riferimento per la fede cristiana della comunità locale e patrimonio storico culturale per tutto il territorio regionale.
Tanti sono stati i giovani che hanno frequentato con interesse e assidua presenza la biblioteca del centro studi Scalabriniani gestito da padre Pretto, per le loro ricerche e per le loro tesi universitarie. – Oltre 16.000 libri a disposizione di una terra che ogni giorno aveva sempre più bisogno di conoscere e di sapere.

p maffeoPadre Maffeo Pretto, nasce a Zimella in provincia di Verona, il 16 dicembre del 1929. Un destino segnato il suo, con un viaggio e una meta puramente combinati. Alla chiamata del Signore, si presenta e dice: Eccomi, e si consacra a lui, giurandogli fedeltà nella congregazione del Beato GiovanBattista Scalabrini.
Una missione che comincia spedita e che dal suo Veneto lo porterà nella parte più profonda e impervia della terra. In Calabria. Ma i missionari lo sanno bene che il viaggio non si sceglie, non si devia mai il percorso, e dove porta la strada, è lì che bisogna andare.
– Sono un missionario scalabrianiano che fa parte di una Congregazione che lavora con gli emigrati- dice Padre Maffeo a Bruno Gemelli in una sua intervista in occasione del 50° del suo sacerdozio.
Maffeo Pretto è il nuovo calabrese che Dio, dimostrando di non essersi fermato a Eboli, manda in Calabria, per mettere in pratica la missione che gli ha affidato. Porsi al servizio delle comunità migranti.
Profondo studioso delle comunità, ricercatore delle mutazioni, demologo e scrittore, oltre che prete di chiesa di periferia. Eccellente professore di antropologia e teologia popolare alla Pontificia Universitas Urbaniana. Egli stesso migrante di Dio.
Dopo i primi viaggi in Calabria, nei centri dell’entroterra, Padre Maffeo pianta la sua bandiera nella comunità di Favelloni prima, e poi a Briatico, dove diventa responsabile del centro studi GiovanBattista Scalabrini. Un punto di riferimento essenziale a cui tutta la regione attinge, e che i giovani calabresi non risparmiano.
Alto, biondo, chiarissimo di pelle, una montatura tutta vetro intorno agli occhi, e le gote rosse come le ciliege di ferrovia.
Durante la permanenza in Calabria, che conta gran parte degli anni della sua vita, il prete scalabriniano, esplora una terra che non si presenta solo luogo ma si fa stato d’animo. E si avventura, come sostiene Gemelli, nelle caverne dell’antropologia con l’umiltà del profano e l’incoscienza del free lance.
Nelle piccole comunità calabresi, l’arrivo della congregazione degli Scalabriniani, porta una ventata di rinnovamento, che non è solo cristiano ma anche culturale. Un’impronta forte di cui ancora vi si trovano tracce.
Sulla base dei fenomeni migratori, c’era un mondo calabrese che andava studiato. E padre Maffeo, assieme ad altri confratelli, era giunto qui proprio per questo. Ma poi lo studio diventa sentimento, attaccamento ai luoghi, alle storie, ma anche ai personaggi, e lo scambio vicendevole di affetto che si va instaurando con le comunità, solidifica rapporti più che mai indissolubili.
– Noi scegliemmo prima di tutto i piccoli paesi da cui sono partiti gli emigrati – dice padre Maffeo al Gemelli. – Andare a studiare gli emigrati a Cosenza non so quanto sarebbe stato significativo. La prima volta siamo venuti giù nel periodo estivo con un gruppo di teologi, filosofi, studenti, i cui incontri sono avvenuti nella zona montana. Poi però ci siamo accorti che erano necessari dei punti stabili nelle parrocchie. Così insieme abbiamo creato dei centri studi.
Una vita dedicata al Signore come sacerdote, e da studioso alla terra di Calabria.
A Favelloni e Briatico, Padre Maffeo aveva fisso lo sguardo. Qui, alla gente, aveva regalato la sua presenza e il suo sostegno. Non si era mai risparmiato con nessuno. E oggi è proprio qui, a questi luoghi e a questa gente, che lascia la sua più grande eredità. I suoi fittissimi studi, le sue ricerche, ma soprattutto i amatissimi libri. Per tutti, i libri di Padre Maffeo.
briatico storiaA Briatico, regala qualcosa di indescrivibile. Troppo forse per quanto invece dal paese ha ricevuto. Ma Padre Maffeo sapeva provare più gioia nel dare che nel ricevere. E, avanti, diceva, andiamo sempre avanti.
Due tomi con migliaia di pagine, in cui è raccolta la storia completa della città di Briatico. Un lezionario di vita, con cui Padre Pretto intende smuovere le coscienze dei briaticesi, a volte poco affini alla propria storia, intraprendendo con loro e per loro, il più importante e necessario percorso identitario che una comunità ha il dovere di fare.
“BRIATICO NELLA STORIA”. 1806/2012
Una voce, quella del prete veneto, divenuta calabrese fin dentro al cuore. Nel senso più forte dell’appartenenza. Lì dove vai, è casa.
– Non dite briaticesi quando parlate di voi – raccomandava sorridendo ai ragazzi di Briatico . – Imparate a volervi bene chiamandovi Briaticoti. E la stessa cosa la ripeteva ai giovani di Favelloni: – chiamatevi Favejunoti.
Padre Maffeo era innamorato della tradizione popolare, e la intendeva come un segno esigente ed essenziale della crescita delle piccole comunità.
Una vita in continua ricerca, un uomo sempre in viaggio, ma soprattutto in missione.
Padre Maffeo, dopo anni e anni di onorata Calabria, studi e sforzi, nel 2009, quando ormai anziano la salute accenna a non volerlo assistere, si trova costretto a lasciare la terra a cui aveva dedicato la sua vita, per ritornare nella sua comunità di origine. E da dove lo scorso 10 giugno, giunge la triste nuova che Padre Maffeo Pretto è tornato alla casa del padre.
Un lutto che colpisce la Calabria intera, che esprime nei confronti del prete missionario la sua più grande riconoscenza.
Il suo ultimo pensiero è stato per le sue amate Briatico e Favelloni. Per la sua gente di Calabria, della quale ormai aveva imparato ogni cosa.
Per espressa volontà, Padre Pretto, lascia a queste due comunità, la sua più grande opera. I suoi libri. Gli oltre 16.000 volumi che grazie all’impegno di Antonella Natale, giovane avvocato di Favelloni, formatasi proprio alla scuola del padre scalabriniano, dopo periodi di silenzio e varie peripezie, torneranno presto fruibili, e nei luoghi in cui Padre Pretto è stato accolto la prima volta. A Favelloni vedrà luce il Centro studi Scalabriniani che porterà proprio il nome del suo direttore: Padre Maffeo Pretto.

A Padre Maffeo, per il quale ho sempre nutrito una profonda ammirazione, va il mio più grande ringraziamento. Per la sua presenza fervente in mezzo a noi. Per essersi sforzato sempre a comprenderci. Per non averci mai lasciati soli. E per essere stato un faro illuminante per le nostre comunità.
Avrei voluto renderti tanto di più di quello che hai fatto per noi, caro Padre Maffeo, ma non ci sono riuscita davvero per come avrei voluto. E questo lo so bene. Ora magari è troppo tardi, o forse no, non è mai tardi abbastanza per recuperare. E allora mi impegnerò con tutta me stessa, e questa è una promessa, affinché i tuoi sogni per i giovani calabresi diventino realtà. E la tua biblioteca si avveri come il grande sogno di tutti.

gsc

Pubblicato in Senza categoria | Contrassegnato , , , | Commenti disabilitati su AdDio PADRE MAFFEO PRETTO – IL PRETE MISSIONARIO SCALABRINIANO STUDIOSO DELLA CALABRIA. BRIATICO E FAVELLONI IN LUTTO!

STUDIARE A SCUOLA GLI SCRITTORI ‘CALABRESI’ – DA CORRADO ALVARO A SAVERIO STRATI

giuGiusy Staropoli Calafati, scrittrice, con un genio narrativo sempre più spesso annoverato tra i grandi della letteratura calabrese, dopo anni di lavoro volto alla sensibilizzazione, nelle scuole, dello studio della letteratura meridionale del ‘900, con i suoi più grandi autori, lancia un appello alla classe intellettuale, politica e civile del paese.

“ Gli scrittori calabresi del ‘900, vengano inseriti nei programmi ministeriali per essere studiati nelle scuole dagli studenti italiani”. Sono ormai diversi anni che agli studenti italiani viene proposta una visione viziosa, viziata ed incompleta della letteratura italiana del ‘900. Dopo Verga e Pirandello, riferiti al Sud, secondo le indicazioni ministeriali, quasi nessun altro autore meridionale, benché meno calabrese nello specifico, viene trattato con una presenza ufficiale nei libri di testo. Un errore forse di prospettiva culturale, o anche di approssimazione che pur inconsapevolmente però fomenta l’annoso divario Nord/Sud. Coadiuvata da numerosi scrittori e intellettuali, Giusy Staropoli Calafati è a lavoro su un documento che ufficializzato nei prossimi giorni, verrà presentato, con le richieste sopra citate, ai ministeri di competenza. In primissima battuta alla Regione Calabria, su sui conta per il massimo appoggio e il più ragionevole sostegno.

12118799_971217632940715_5594937670801333163_n“Sono sempre più convinta – dice Giusy Staropoli Calafati – che la letteratura può salvare la Calabria. Nessuno è finito finché avrà un libro da leggere nelle mani. E nei libri degli autori meridionali, sono raccolte le più grandi verità del paese. È lì che sono riportate le giuste indicazioni da seguire per riconquistare in maniera completa e con una visione inequivocabile, da Nord a Sud, la nostra identità. Con sapienza, consapevolezza e soprattutto senso di responsabilità. Per questo ho deciso di elaborare un documento scritto, in cui verranno riportate con espliciti riferimenti ai nostri autori, le ragioni di carattere culturale, morale e civile che impongono di procedere, con ufficialità, al coinvolgimento della scuola dell’obbligo nello studio dei più influenti autori calabresi”.

“Una battuta questa -prosegue – alla quale mi auguro di avere il più convinto e pieno sostegno da parte dei rappresentati dei calabresi sui banchi della Camera e del Senato.
Il professore Walter Pedullà sostiene che quando la politica perde la strada che l’ha resa un fattore di rinnovamento e di sviluppo, ecco che arriva la letteratura e chiede di dire la sua, rivolgendosi direttamente alla vita. “È il nostro turno”!, recita il titolo di una delle più belle opere dello scrittore Saverio Strati. E allora sia.
La cultura è un bene prezioso, collettivo, per cui è necessario ci si ci si spenda tutti e si investa tutto. In altro caso un paese anziché crescere, rischia di rimanere nano. Nicola Giunta scriveva: “iddi su nani e vonnu a tutti nani”. Ma la Calabria, forse più di altre regioni italiane, con le sue menti, le sue eccellenze e i geni immensi della cultura e delle lettere, palesa ormai da tempo un forte desiderio di crescita, che non può più permetterle di rimanere indietro”.

“Un popolo -sottolinea Giusy Calafati – per capirsi veramente deve conoscere i suoi artisti, altrimenti rimane indietro, scriveva Saverio Strati. Per questo, l’assenza dei calabresi nella storia della letteratura italiana novecentesca, diventa un’assenza quasi tragica. Un danno culturale e sociale che non può più essere perpetrato. Gli studenti, mancano ormai da tempo, di un pezzo di storia importante che non può più essere tralasciata alla passione sporadica di qualche buon docente. È sul sapere che si gioca il presente e il futuro di una generazione. Conoscere Alvaro, Strati, Perri, La Cava, Seminara, Repaci, Calogero, Costabile, De Angelis, Zappone e molti altri,potrebbe essere per l’Italia intera una vera chiave di volta.
Mi auguro – chiosa Giusy Staropoli Calafati – che la proposta trovi immediato terreno fertile in Calabria, ma soprattutto nel resto del paese. Direttamente sui tavoli responsabili dell’istruzione dei nostri giovani”.

“Sono già diverse settimane che la scrittrice, attraverso i social, e le pubblicazioni riportate da CalabriaLive, quotidiano digitale con cui collabora da tempo, lancia messaggi di sensibilizzazione sull’importanza della letteratura meridionale e calabrese. L’Italia ha spazi vuoti, con nomi e cognomi, ma soprattutto libri, che tocca alla Calabria colmare. Corrado Alvaro, tra i tanti, non può più aspettare. Gli studenti italiani neppure. C’è un incontro che bisogna subito organizzare. L’invito, a chiunque voglia aderire al progetto, sottoscrivendo il documento, è quello di contattare la scrittrice attraverso i suoi canali social, o direttamente sulla sua e-mail a giusystaropoli@libero.it
La letteratura salverà la Calabria!”

Pubblicato in Senza categoria | Contrassegnato , , , , , , , , , , , , | Commenti disabilitati su STUDIARE A SCUOLA GLI SCRITTORI ‘CALABRESI’ – DA CORRADO ALVARO A SAVERIO STRATI

CALABRIA. TERRA ROMANTICA E DI INEGUAGLIABILE BELLEZZA

PIl nome Calabria in se stesso ha non poco di romantico. Nessun’altra provincia del Regno di Napoli stimola tale interesse o ispira tanto ancor prima di avervi messo piede. Appena il nome è pronunziato, un nuovo mondo si presenta alla nostra mente: torrenti, fortezze, tutta la prodigalità dello scenario di montagna, cave, briganti e cappelli a punta, costumi e caratteri, orrori e magnificenze senza fine (…) . (“Diario di un viaggio a piedi – Reggio Calabria e la sua Provincia” di Edward Lear)

Pubblicato in calabria | Contrassegnato , , | Commenti disabilitati su CALABRIA. TERRA ROMANTICA E DI INEGUAGLIABILE BELLEZZA

TROPEA LA BELLA. BORGO DEI BORGHI 2021

FOCUS_TROPEA«Tropea era bella a tutte le ore. Quando il sole le cadeva addosso in picchiata o quando le stava di fronte e la tingeva di giallo e di oro. Ad interessare il forestiero era la sua vicenda storica, artistica e ambientale. Il quotidiano incanto di un flusso solare che frantuma i raggi sulle sue rocce, gli scogli, i faraglioni. Un incontro che non conosce stasi. Se una giovane con le guance rosse c’era, era lei. Pronta a progettare sogni e inventare speranze. Limpida e trasparente come un’ammiraglia sopra il mare. Con la sua doviziosa ricchezza di colori tra le porte di pietra, e i suoi balconi. Tutta intera, prona e supina, distesa lungo i bordi del mare, sporgente con risoluta avvenenza in mezzo ai golfi di Sant’Eufemia e Gioia Tauro. Una rupe di arenarie superbie che strapiombava a Nord, Sud e Ovest, sopra un lembo di spiaggia bianca a cui erano congiunti due frammenti insulari: lo scoglio di San Leonardo, e poi il grande scoglio. L’isola. L’isola di Santa Maria. Un grosso arenario ricco di piccolissimi fossili e dotato di movenze scenografiche particolari, dalla cui cima, si osservano la purezza dei colori del mare, si incontra la terra e si gode del chiarore del cielo».

È accaduto!

Nella Calabria ormai perduta e irrecuperabile, Tropea viene eletta borgo dei borghi 2021.

Una sintesi perfetta di orgoglio e calabresità.

La cittadina che fu di Don Mottola e di Lidia Toraldo, simbolo di bellezza e meraviglia, vince la sua sfida. E diventa immediatamente simbolo del riscatto e pienezza di forza di una terra che ha ancora tutto da scommettere. Che investe sul presente per elaborare al meglio il proprio futuro.

Tropea borgo dei borghi 2021, è un ambito e prestigioso traguardo che è merito di tutti i calabresi che hanno creduto in questa non facile missione, in una terra che dimostra di ancora una volta di credere in se stessa.

Una vittoria corale, che tocca le punte estreme di tutta la regione, con consensi e manifestazione di gioia mista o orgoglio da parte di tutto il mondo civile, quello politico, quello imprenditoriale e culturale, delle arti e delle professioni, e che vede nel successo riscosso dalla cittadina del Tirreno, l’avvio di un’opera straordinariamente importante, pronta a ridare alla regione la reputazione che merita.

Un sogno, dunque che si avvera e che ricorda che il futuro della Calabria è nelle nostre mani. I calabresi di oggi e di domani.
(gsc)

Pubblicato in calabria, cultura | Contrassegnato , , , , | Commenti disabilitati su TROPEA LA BELLA. BORGO DEI BORGHI 2021

SETTE ANNI SENZA SAVERIO STRATI

-Sant’Agata del Bianco 16 agosto 1924/ Scandicci 09 aprile 2014-

UpkPfA5XLjiK3XSZUDjqBDjfNP5B3ZV4ZgHtASlJCcI=--Saverio Strati esordì nella sua carriera di scrittore con un racconto. E con un racconto, animato dai suoi per¬sonaggi più amati, va il mio saluto al maestro, che così avrebbe voluto essere ricordato dai “suoi” calabresi.
«Quell’aprile, era già passato un anno. Un lungo anno. Uno esatto dalla morte del maestro.
Ma il nove di quel mese, sembrava essere una data come tante. Calendarizzata per inerzia assieme alle altre.
Sembrava non importare a nessuno di quel lutto che un anno prima, lo aveva deposto, con i piedi in¬nanzi, in una Firenze lontana e bellissima. O forse nes¬suno si era accorto mai della sua morte.
– Certo! – disse Cicca – Chi non si accorge della vita di certi uomini, non potrà accorgersi mai della loro morte. E aveva ragione.
Seppure con una testa contadina, Cicca aveva ragione. E mi venne improvvisamente da chiedermi: che cos’è la cultura? A chi ap¬partiene la cultura? E di questo o d’altri mondi la cultura?
E ricordando in un’ariata d’appartenenza il maestro, giunsi a dir che la cultura appartiene alla terra. Di che mondo e mondo, tutta alla terra. A quella mite che per dirla con la nostranità del cuore, quando giorno di Gali¬lea se ne sta con la famiglia in mano, resta il solo pezzo di Sud che preferisco.
A quella stessa terra della quale il caro Saverio aveva fatto lenti per leggere il mondo. E ne aveva scritte di pa¬gine lui, trattando la tenerezza e la durezza della terra. Quella più secca e arida. Quella più sola. La più dispera¬ta, spigolosa. La meno illustre e tutta romantica fin den¬tro il suo nome. La terra del Sud.
Quell’anno di morte, era valso tanto quanto i suoi novanta di vita. Tutto e nulla. Nulla e…
Tempi di rinuncia e fame. Tempi fatti di anni a som¬me dispari e pari, trascorsi nella solitudine chiassosa dei pensieri ritrosi, delle parole schive, alternati, come fosse¬ro canti di cicale, a silenzi immani, immensi e grevi. Ru¬mori muti, di pagine riaperte e copertine smisuratamen¬te grandi, rinvenute in alcune memorie sì e in altre no.
Cicca, aveva conosciuto il maestro. Da lui aveva im¬parato che cos’è una Teda. Avevano percorso assieme la via di Africo. A Campusa, aveva visto risorgere l’anima delle case dei poveri cristi, cadute giù per terra nella sibi¬lante tempesta d’acqua del ’51, nella bocca calabrese del professore. A Sant’Agata invece, quando tutti lo credeva¬no altrove, il vecchio Saverio c’era. E solo Cicca lo sape-va. E quando v’era, gli scandagliava la memoria. E impa¬rava Cicca. A conoscere il paese, il Sud, se stessa. Impara¬va a conoscerlo, Saverio.
– Aveva paura, il maestro. Paura di non riconoscere il paese. Timore assai, di non essere riconosciuto. – mi dis¬se Cicca, nella confidenza che tra di noi si stabiliva.
– Ma come può un uomo così non essere riconosciu¬to, eh Cicca?
– Può Michele. Un uomo così, può non essere ricono¬sciuto. Quando un uomo così viene nominato codardo, quando un uomo così viene definito ’mpamu, può. Fi¬dati che può. Può non essere riconosciuto.
Cicca mi fece venire la pelle d’oca. Parlava come se il maestro fosse dentro di lei. Le vivesse dentro le carni. Nel ticchettio del cuore.
– Non è onesto… – continuando, con gli occhi tanto lucidi e cupi – non è onesto dimenticarsi di certi uomini né vivi né morti – disse.
– Saverio Strati è impossibile, dannoso dimenticarlo. Ha scritto la storia del Sud denunciando lo stato croci¬fisso in cui questo è sepolto vivo. Ha parlato degli ulti¬mi condannando i primi. Ha raccontato di uomini e non di numeri. Ha avuto coraggio, il maestro. E il Sud non ha coraggio, Michele. Se un giorno dovesse mancar¬ci la terra sotto i piedi, che faremo? Che faremo, eh Michele?
– Non lo so che faremo. Dimmelo tu, Cicca. Che fa¬remo?
– Moriremo! Ecco che faremo. Moriremo scoraggiati. Con basti carichi d’ignoranza moriremo, Michele. Mori¬remo senza neppure sapere se siamo mai appartenuti a una pagina di storia.
– Quale storia, Cicca? Quale storia?
– La storia che il maestro Saverio ha scritto e noi non abbiamo letto. La storia del Sud, Michele. La stessa del maestro, quella del contadino letterato, del muratore del¬la scuola. Il racconto dell’uomo calabrese, il maestro di Cicca. Sì, il mio maestro. Il mio maestro, capisci Michele?
E nel giorno della morte, quel giorno, nessuno oserà accenderci neppure una teda. Niente luci quaggiù. E sarà dannata l’anima di chi non ha imparato. Imparato dai libri. Dai suoi libri.
– Cicca, tornerà in paese il professore, prima o poi?
– Michele, tu lo sai che dopo la morte non torna mai nessuno?
– Già!, hai ragione Cicca. Dopo la morte non torna mai nessuno.
– Ti sarebbe piaciuto conoscere il maestro Saverio, Michele?
– Sì Cicca. Mi sarebbe piaciuto.
Cicca mi prese per mano e correndo, mi portò fino a Piazza Libertà. Addossate alla ruga grande, ci stavano ca¬sette basse a fila. Infilando la chiave nella serratura della porta di quella più giallognola – Accomodati! – mi disse, ed entrammo. Il sole faceva luce ovunque.
Indicandomi con la mano tutti i libri risposti in ma¬niera composta nella libreria addossata alla parete destra della casa, aggiunse: – Ecco il maestro, Michele!
Mi guardai attorno stupito. In paese non v’erano tan¬ti uomini, per quanti libri mi trovai innanzi.
Vidi che ogni libro portava il suo nome: Saverio, Sa¬verio Strati, Strati Saverio, o Strati soltanto.
Cicca accarezzava le copertine come fossero visi di bambini.
– Allora Michele, che te ne pare?
Gli occhi di Cicca brillavano.
Aspettava che dicessi qualcosa.
– Allora? Cosa vedi Michele?
Me lo chiesi anch’io: – Che vedo?
Cicca sfilò dallo scaffale un libro a caso. Con voce potente, lesse l’ultimo tratto: “In un minuto la casa fu piena di vicini. In poco si diffuse la notizia della morte di Rocco e della pubblicazione dei suoi libri”.
A parlar del maestro si commuoveva la contadina, che prese a rassettarsi le trecce nere. Era come una regina della terra quella Cicca di Terrarossa.
Non resistetti. Passai un dito su quelle copertine an¬ch’io. E nel mentre che un bacio di Cicca finì per rag¬giungermi la bocca, finché ero ancora in tempo, affinché non fosse troppo tardi: – Chapeau Saverio!».
12096484_974709322591546_8361701807863950994_nI libri di Saverio Strati, risultano essere tutti una buona opportunità di crescita. Un lampo di genio capa¬ce di proiettare a chiunque ne faccia uso, un ottimo fu¬turo. Perché è lì, tra quelle pagine che sedimenta il senso dell’appartenenza. Sono libri e sono villaggi vi¬venti di autentica memoria. Una memoria che ha buone probabilità di diventare collettiva quando, leggendo, una comunità ha voglia e coraggio di sommare un certo nu¬mero di memorie individuali.
gsc

Pubblicato in calabria | Contrassegnato , , , | Commenti disabilitati su SETTE ANNI SENZA SAVERIO STRATI

GENERALE, O MIO GENERALE, IN CALABRIA NON VA BENE NULLA. Al generale Figliuolo – commissario emergenza covid 2021

bbCaro, generale Figliuolo, in quale falsa Calabria, i buoni alchimisti, l’hanno condotta lo scorso 25 marzo?
No, perché se la pandemia è una guerra, nella mia Calabria si combatte la battaglia più cruenta. E la soddisfazione da lei espressa durante la sua apprezzatissima visita nella terra Bruzia, muta in un’ennesima nuova preoccupazione. Ed è bene che lei lo sappia.
Qui non va bene una beata minchia, signore. E mi perdoni l’embolo. Ma la pazienza dei calabresi sta diventando intolleranza. Siamo uomini perdio santo, non burattini della razza narrata dal Collodi.
La sua amara preoccupazione d’esordio per questa terra, torni ad abitare il suo animo. Di generale, ma soprattutto di uomo.
Il fronte è quaggiù. E le mani di chi combatte sono nude e il Re pure.
Torni per vedere questo versante di guerra, generale. In sordina, con la sola lucidità dei suoi occhi. A mo’ di sorpresa. Di quelle che lo Stato quaggiù non fa mai senza il morto. E se non per i calabresi, lo faccia per amor della Patria, che pur di codesta terra ci compone.
Gli ospedali sono al collasso, mancano i vaccini in tutta la regione, e i sistemi di prenotazione non funzionano. I nostri anziani vengono convocati e poi rimandati indietro senza la propria dose, e nessuno che sappia nulla. Le spallucce dei medici, il disappunto dei volontari, il silenzio delle istituzioni. Un tilt collettivo che pur di non individuare la singolarità delle sue falle, vende fumo. Una mala gestione che però non narcotizza più nessuno. Noi vediamo, generale. Ma non intendiamo più subire, signore.
Torni per vincerla con noi questa battaglia, Francesco Paolo Figliuolo. Torni, se ci crede davvero, e si schieri con i sindaci calabresi. Ascolti le loro accorate richieste. La loro è la voce vera della Calabria.
Ci faccia credere che questa è terra, signore, e Cristo non si è fermato a Eboli.
Non incarognisca anche lei, più di quanto già non lo sia, la nostra storia.
Il fronte va vissuto fuori dal quartier generale. Tra i soldati della prima linea. Sono i soli che conoscono il battito della paura, che sentono dentro la forza del coraggio. E se per vincere, un “Figliuolo” solo non basta più, porti con sé il suo esercito. Che fornisca a questo popolo ancora bistrattato e incompreso, le armi e la speranza.
Dopo l’aula bunker di Lamezia Terme, in Calabria, si ricordi e lo rammenti anche ai suoi, c’è un popolo sincero fatto da uomini e donne che chiede la tutela della propria salute e il rispetto della propria dignità.
Ogni vita salvata è una medaglia in più sopra il petto, signore. Ogni morte, un fallimento dentro al cuore.
Generale, oh mio generale, ora o fate lo Stato, o si comincia la rivoluzione!

gsc

“Su calabrisi e calabrisi sugnu,
Su’ nominatu pi tuttu lu Regnu;
Cu voli canzuni ‘nci li dugnu:
D’amuri, gelusia, spartenza e sdegnu.
‘Nfacci all’atri paisi non mi nfundu,
Fazzu li cosi mei cu’ forza e ‘mpegnu;
Vinissi a ‘mpettu a mmia tuttu lu mundu,
L’amuri pa Calabria lu mantegnu!”(testo tradizionale calabrese)

Pubblicato in calabria | Contrassegnato , , , , , | Commenti disabilitati su GENERALE, O MIO GENERALE, IN CALABRIA NON VA BENE NULLA. Al generale Figliuolo – commissario emergenza covid 2021

I JORNA I PASCA

eeee

Lu mercuri santu arrivavano tutti i parenti. Si ricongiungevano intere famiglie. Le madri festanti riabbracciavano i figli. E poi fratelli, nipoti, zii. Tutti di ritorno, come fosse la replica di un film tanto atteso. Ci si ritrovava ancora una volta tutti lì, al punto di partenza. Un rito in cui i ritorni non narravano che l’essenzialità della famiglia che ricongiunta consacrava a Dio la sua bellezza e il suo valore.
Si arrivava solitamente entro la mattinata, in una confucio di primavera strabiliante. Il sole in faccia ai più piccoli e poi le rondini sotto i nidi, i primi gerani e le tende delle case semiaperte mosse dal tepore ancora timido della nuova stagione.
Il pomeriggio era tutto per i campanari, le cuzzupe e le pittepie. Il nonno preparava il forno. E poi chi aggiustava le forme e chi il ripieno. Quando calava la rosa al forno, le lande rettangolari precedentemente riempite con i dolci, venivano chiamate una ad una, e da sopra la pala le si faceva scivolare con lentezza dentro la bocca del forno. Lì le si accomodava fin dentro la sua pancia calda e le si lasciava cuocere. Il forno aveva il suo tempo, i dolci la loro cottura.
Il fil rouge che legava l’atto del preparare allo stato d’animo del fare, era il profumo ineguagliabile dei biscotti, che già a metà cottura si alzava in mezzo all’aria, penetrando le narici di grandi e piccini. Un atto di devotio e finanche di implorazione che vedeva raccolto intorno al forno tutto il parentato, affinchè il Padreterno, quelle pie lavorate con la stessa fatica del pane, si adoperasse anch’egli a farle venire fuori con una bella faccia, saporite e cotte.

Lu jovi santu, era della Coena Domini. Si arrivava in chiesa tutti assieme almeno un quarto prima dell’ora della messa. La chiesa si gremiva di gente. Anche Gesù godeva dei ritorni che riempivano non solo le nostre case ma anche la sua. Chi tornava da Milano, chi da Torino, chi dall’Australia e anche dalla ‘Merica. Tutti per quell’ora avevano ormai fatto ritorno. I bambini riempivano i gradini dell’altare. Anzi lo addobbavano, come dicevano le donne. Facevano da corona al pane che, nelle ceste piene, veniva riposto ai piedi della mensa, mentre al di sopra di essa, vi stavano adagiate dodici pitte, a curuja col buco, con dentro una grossa arancia, segno che tutti si radunavano al cenacolo del Signore. Il prete, raggiungeva l’altare portando al suo seguito i dodici apostoli. Anche Giuda era con loro. Ognuno prendeva il suo posto, e le donne che non si lasciavano mai sfuggire nulla, ammirandoli uno ad uno, si sussurravano chiacchiere negli orecchi: “ma quello non è il figlio di? E quell’altro?” Un senso di appartenenza che portava chiunque a riconoscersi.
Solo dopo il rito della lavanda dei piedi, ripetuto di anno in anno con sacralità e devotio, alla fine della messa, benedetti i pani, ai dodici venivano consegnate le sante pitte. Per Giuda il pacco era doppio. A lui, dopo il pane, veniva servito uno schiaffo duro sopra il viso. Che mentre l’eco s’apriva d’intorno, il suo tradimento si serviva di un segno preciso per essere sancito.

Lu vennari santu si attendeva con cuore afflitto la chiamata di Maria. Vestita di nero, con sopra il petto sette spade a trafiggerle l’anima, la Madonna era pronta e pietosa.
L’Addolorata se ne stava ai piedi della chiesa . Era lì che attendeva, povera madre. A darle conforto i suoi portatori. Nessuno lasciava sola Maria. E intanto si chiamava la croce. Tre volte si chiamava. Fin quando col cuore scoppiettante arrivava l’ora di lei. La desolata veniva issata da terra. Per tre volte la si chiamava.
” Vieni, Maria. Vieni, Maria”. Più forte: “Vieni, Maria”. E Maria correva,. Correva veloce. Con il manto nero che librava nell’aria, vestita di lutto arrivava, e tra le mani sue dolci le veniva consegnato il figliolo.
Tutte le madri piangevano la notte del venneri santo. Tutte si sentivano Madonne. Tante, scalzate dai propri sandali, accompagnavano la Madonna in processione lungo la via della Croce. Con canti di dolore e di pietà invocavano perdono alla madre e al figlio. E si sentivano la sofferenza ed il lamento. Anche i bambini li sentivano. La simana santa era la più grande preghiera alla pietà di Dio.

Lu sabatu santu, era la notte della veglia. Nella piazza un grande fuoco raccontava la luce di Cristo. Nelle fiamme che ardevano, venivano bruciate le vecchie immaginette dei santi e le palme dell’anno passato. Dio li aveva benedetti e donati, e a lui tornavano col fuoco.
Si riaccendeva il cero pasquale. ‘Questa è la notte da missa a storta’, dicevano gli anziani. Erano loro la vera essenza di questi riti. Sapevano tutto i vecchi. Erano testimoni della fede oltre che della storia. E raccontavano con orgoglio e minuzia i segni di una tradizione che tramandata, si ripeteva. E tutti tornavamo anche per questo.
Sull’altare, i più giovani, avevano allestito un grande sepolcro. Alla mezza esatta, lampi e tuoni. Fulmini e saette. E il Gloria faceva rotolare giù la pietra. E Gesù risorgeva.
Alleluia, Alleluia!
La statua del Cristo risorto era meravigliosa. Tanto quanto lo erano gli occhi dei ragazzi, fieri e orgogliosi di quel segno riuscito che restituiva al paese l’emozione di un’altra Pasqua di resurrezione.

La dominica era di Pasca. A santa Pasca, diceva mia nonna. La festa più bella dell’anno, il momento che tutti attendevano con giubilo. E veniva nuova, con la vita che aveva vinto la morte.
Da noi, era a dominica d’Affruntata. A ‘ncrinata, a Cumprunta. L’incontro tra Maria e Gesù. Un rito tradizionale antico che si perpetuava nel tempo. Corso Margherita, si vestiva festa. Le due sponde della strada era gremite di gente. Si vedevano turisti e famiglie dei paesi viciniori.
San Giovanni, attendeva il fischio per aprire il viatico. E fremeva. Carico di gioia e di bellezza, si vedeva impaziente.
Maria, straordinariamente bella, vestiva ancora di lutto.
– Levatele via quel manto nero – gridava qualcuno. Ma bisognava aspettare. La cumprunta non era ancora avvenuta.
Un atto che non era solo un rito, ma raccontava veri momenti di evangelizzazione per la chiesa cattolica.
Mastro Peppino, era il pioniere di San Giovanni. Mastro Nino invece quello della Madonna. Erano loro erano i vecchi custodi di quell’incontro. I santi, così come tutti identificavano Giovanni, Maria e Gesù, venivano sistemati al loro posto. Ogni statua veniva preparata con le sue stanghe. Tutto doveva coincidere, essere preciso. Niente doveva andare storto. Quattro portatori per ogni statua. Cinque per la Madonna. Uno doveva svelare Maria. Una maestranza che si tramandava di padre in figlio. Un compito nobile, un onore e un onere. Una forte responsabilità quella di levare alla Madonna il manto nero nell’attimo esatto dell’incontro con il Cristo risorto, restituendole la gioia della vita con il candore del mantello bianco.
Un nodo alla gola, l’andare e venire di San Giovanni, a cui Maria in prima battuta non crede mai.
‘È risorto lui’, le dice. Ma la Madonna tentenna. Giovanni insiste. Per quattro volte, va e poi viene. Sale e poi scende. Sale dalla Madonna per dirle del risorto, e scende da Gesù per raccontargli l’incredulità della Madonna. Solo la quinta Maria sovviene. E allora, va. La Madonna, è pronta alla ‘ncrinata.
Viene presa in carico dai portantini. È pesante. Legno di una volta. Ma non si scoraggia nessuno. E pure i più deboli diventano forti.
Gli occhi della folla, corrono da un capo all’altra della strada. È l’ora.
Dalla traversa in cui era stata precedentemente posta, la statua della Madonna viene portata sulla strada principale. San Giovanni è in fondo alla via con Gesù. Manca davvero poco.
Maria comincia la sua discesa. Dal passo al trotto, passa alla corsa. La Madonna corre, va veloce. Non si ferma più. Ma ria incontra suo figlio.
I cuori scoppiano, gli occhi piangono. Si alzano nell’aria battiti di mani e voli di colombe.
È la Pasca santa a lu piasi. È la pasca di na vota.
gsc

**** foto tratta dal web****

Pubblicato in Briatico, calabria, cultura, eventi | Contrassegnato , , , , , | Commenti disabilitati su I JORNA I PASCA

LE PALME

unnamedA intrecciare le palme non ero mai stata brava. Così preferivo i ramoscelli di ulivo. Li andavo a raccogliere il sabato in campagna. Ne facevo un bel mazzetto. Dodici rami per la precisione. Me lo aveva suggerito il nonno. A lui lo aveva insegnato sua madre.
– Mi raccomando, Carlo. Dudici arrami.
Non gli avevo mai domandato perché proprio dodici. Ma avevo la mia teoria. E mi bastava. Dudici megghju arrami.
La domenica delle palme, il nonno mi aspettava al calvario. L’appuntamento era per le 10 esatte.
Dodici rami io e dodici lui. 24 in tutto. Come le ore del giorno, contando quelle di luce e quelle di buio.
Gesù arrivava sopra un puledro d’asina. ‘ Nu sceccareju’ diceva lui. Ed era bello scuotere i rami per essere benedetti immaginandolo passare tra la folla.
Oggi, per il secondo anno consecutivo( Covid), ho l’impressione che il Cristo arrivi senza puledro d’asina. Con il sacrificio della strada. I piedi maciullati dalle imperfezioni del suolo e il sudore della fatica.
Inoltre manca anche il nonno. Credo sia in guardia allo scecco di Gesù.
Ma i dodici rami, quelli non mancano mai. Neppure oggi. Il nonno se lo fece promettere. E le promesse vanno mantenute.
Oggi agiterò quei rami pensando a noi, affinché passandovi a piedi, il Maestro, guarisca questo tempo e pure l’uomo. Come fece col cieco nato. Il COVID ha privato tutti della vista. E chi muore col virus e chi non vede oltre.
“Quandu lu bon Signuri trasiu a Gerusalemmi, cu frundi di luvari e figghj di li parmi: osanna, osanna, osanna a lu Missiva chi vinni di lu sinu di Maria.

Pubblicato in calabria | Contrassegnato , , | Commenti disabilitati su LE PALME

Cuzzupe, campanari e pittepie – tradizioni pasquali in Calabria

er

Mia madre aspettava che ci fossimo tutti. Servivano lo stesso aiuto, la stessa fatica e la medesima pazienza del pane, per le pie.
L’impasto lo preparava lei di buon mattino. A noi lasciava il gusto di riempire le forme, aggiustare le uova, e infine sistemarvi tutti i decori.
Era così che cominciava la nostra settimana santa. Con un’enorme cesta, dentro cui vi si adagiavano come ali di angeli, avvolti dentro la freschezza del lino, campanari, cuzzupe e pittepie. Gli unici dolci che, nella tradizione a cui appartenevamo, scandivano il cammino verso la Santa Pasqua.
Bisognava attendere la domenica per mangiarli però, gustarne la fragranza e andare orgogliosi del lavoro che avevamo fatto. Un sacrificio che mia madre ci chiedeva, e che si raccomandava di dedicare al Signore e alla sua Passione. Lui che era morto per noi e il terzo giorno sarebbe risuscitato.
Nessuno però resisteva, e di nascosto tutti spizziculiavamo la nostra pia, tanto Gesù, con la sua resurrezione avrebbe perdonato le nostre debolezze, contandoci ancora tra i suoi figli. La nostra Pasqua era quella di un Dio che si faceva dolce e perdutamente ci amava, nonostante tutto.
Il giorno di Pasqua, dopo pranzo, quando mia madre scopriva la cesta vedeva che i dolci non erano più come li aveva aggiustati lei. Corrucciava la fronte e storcendo il naso, a raggiera, ci guarda tutti negli occhi.
– Chi è stato? – chiedeva.
Non rispondeva mai nessuno. Eravamo stati tutti, e lei lo sapeva bene. E ci porgeva a ognuno il nostro campanaro, la cuzzupa e la pittapia.
– È risorto – diceva poi festante, mentre nelle mani poste a conca ci metteva il santo e dolce bottino, e nella logica del ‘tutto è compiuto’ ringraziava il cielo per la nostra Pasqua.
gsc
***
P.S. i campanari(curuji cu l’ovu) della foto, questa volta sono opera di mia sorella, dopo mia madre, le mani d’oro di casa.

Pubblicato in Briatico, calabria, cultura | Contrassegnato , , , , , , , , | Commenti disabilitati su Cuzzupe, campanari e pittepie – tradizioni pasquali in Calabria

IL SUD QUESTIONE ITALIANA. SARA’ VERO?

VAbracadabra, ed ecco che la questione meridionale ritorna. E lo fa nella sua più atavica forma, per trasformarsi in un documento istituzionale sui tavoli del Governo. Il divario tra Nord e Sud, si tramuta e finalmente in una questione “italiana”. Sarà vero?

La presa di posizione del governo Draghi, per un riequilibrio della Nazione, arriva a conferma che dal 1861, con la nascita del Regno d’Italia, pur volutamente avendo lasciato cadere nell’oblio la storia reale con cui il Meridione ha subito il suo più grande e profondo disfacimento, l’Italia non ha mai completamente suggellato la sua “Unità“.

Con l’omissione, per scelta, della vera narrazione dei fatti del Sud dai libri di storia, che portarono, non per causa ma per effetto, all’unificazione italiana, incarognendo il fenomeno del brigantaggio, si è garantito al Sud il disprezzo irreversibile del resto del paese. Ma la versione dei fatti accaduti, va riportata nella forma integrale. Le verità epocali, che hanno indotto lo sfracello di un regno florido come quello di cui il Sud faceva parte, non possono più essere nascoste. Serve che l’Italia, per il suo bene, si sinceri con gli italiani, affinché tutto il popolo sappia, e per dovere e per giustizia, e chieda la fine immediata delle disuguaglianze che ancora l’Italia vive a causa della scissione incomprensibile tra il Nord e il Sud del paese. Siglando finalmente un vero “patto di unione”

“La nostra ambizione – ha affermato il ministro Mara Carfagna nella due giorni dedicati al progetto di rifacimento unitario del paese- è chiudere l’epoca delle lamentazioni del Sud”.

E no, ministro! Il Sud non si è mai lamentato. Il Sud, va semplicemente riconosciuto come il secondo Cristo Re, della storia. Perché anche quando le folle hanno scelto Barabba, il piccolo grande Sud, non ha fiatato. Forse ha fin troppo subito, e magari si è anche troppo miseramente accontentato.

Le sue ricchezze, le abbondanze delle sue terre, le lotte, la forza, il coraggio, e anche le virtù e le magne glorie, gli sono state tutte o fottute o mandate al massacro. E ciononostante, ha sempre fortemente lottato per la bandiera ‘italiana’ a cui si sente da sempre appeso, piantandola di proprio pugno, nelle proprie terre anche al prezzo del sangue dei propri uomini.

La storia non va dimenticata, ma soprattutto non va occultata. È tempo di responsabilità, ma soprattutto di prese immediate di coscienza.

Senza Sud, nessuna Italia.

Il paese sarebbe una terra mozza senza le sue gambe. Ed è lì, negli arti inferiori, che sta la forza di un corpo nel rimanere in piedi.

Se qualche naturale lamentazione dal Sud si è levata, nel corso dei secoli, è stata certamente fomentata dalla recrudescenza di quel male fisico, morale e sociale che il Sud stesso ha sempre sofferto. Ma più che parlare di lamentazioni, si parli di giustizia. Di equità, aequalitas.

Il Meridione, la cui storia ha contribuito in maniera sostanziale alla nascita e alla crescita dell’Italia, si è sempre visto frazionare ogni suo bene. Tutte le sue ricchezze e la dignità dei suoi uomini. Un martirio servito ai sabaudi per emancipare e industrializzare le proprie terre. Servendogli grandi fabbriche, dove prima v’erano puzze e paludi.

Ma la storia è un perfetto Karma.

E mentre il Nord si scopre non essere più il vero e solo motore del paese, si torna al Sud. Alla potenza e al potenziale dell’area territoriale più bella e feconda d’Italia.

E qui, o si fa l’Italia, o si muore. E l’effetto è domino. Un Paese, 21 regioni.

Il Sud, ha sempre cercato occasioni e mai assistenza. Ha rincorso opportunità e non convenienze.

E mai avvezzo ai tavoli della politica, è stato lasciato in pasto a quelli della mafia.

A chi è stato è convenuto questo massacro?

Agli italiani del Nord, o ai meridionali del Sud da sempre sporcati con il fango del pantano e poi rilegati nel girone della ciotìa?

La pazienza diventa intolleranza. E la stanchezza si tramuta in forza.

Il Nord si presti al Sud, allo stesso modo di come il Sud si è dato al Nord. Con i sacrifici, le rinunce se necessario, il lavoro e le buone preghiere. Tanto il tempo ha le sue evoluzioni. E se anche i giovani meridionali continuano a essere emigranti, quelli del Nord non hanno più diversamente scampo. Da Milano e da Torino si parte per il resto del mondo. E l’Italia si indebolisce tutta. Il suo tessuto sociale si impoverisce in maniera trasversale. Effetto boomerang di una globalizzazione che se ne fotte del divario italiano e coinvolge tutti i 1300 km del paese.

Si passi dalle parole ai fatti.

Se è vero che la bellezza salverà il mondo, l’amore può salvare l’Italia. La sua integrità fisica e morale.

Un bacio. Un solo bacio d’amore sulla bocca. Si ricongiungeranno le sue labbra e le due parti del paese torneranno a battere con un cuore solo.

Parola di meridionale! (gsc)

Pubblicato in calabria | Contrassegnato , , , | Commenti disabilitati su IL SUD QUESTIONE ITALIANA. SARA’ VERO?

IL PROCESSO È ALLA ‘NDRANGHETA NON ALLA CALABRIA

PPP_AULA_BUNKER_210319
La disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile.(Corrado Alvaro)
Se si parla di “Rinascita” di Calabria, sorride il cuore. Ripartono i sentimenti di pancia e riaffiorano l’orgoglio e l’identità. Il senso preciso dell’appartenenza risorge e si mobilita persino la nobiltà del dialetto. Ma se si passa a “Rinascita Scott”, cambia il disco.

Il cuore piange, il dialetto stracangia e il sentimento che prende allo stomaco ammalatisce il pensiero e frammenta i santi lumi.

Una storia triste che ha la forza di avere sullo sfondo paesaggi da togliere il fiato. Un avvicendamento di tempi ed eventi che suffragati dalle lusinghe del bisogno, tumulano una terra forte e gloriosa. Dove la bellezza abdica, e al suo posto s’introna la bramosia del potere. Declassandola da Magna Grecia, a terra di nenti e di nuju.

Una crociata che va dalla Genesi all’Apocalisse. Con la polvere tra le ciglia, senza sapere se chi è vicino a te è un Dio o un diavolo.

Terra di briganti prima, terra di ‘ndranghetisti poi. Questione di vedute e mai di ravvedimenti.

Una Lectio viva che tratta di dignità e morale. Un nodo atavico che più il calabrese si divincola e scapiglia, più si stringe. E la fame d’aria è peggio della fame di pane.

Una stortura tragicomica e minchiona che getta tra gli inferi pure i lattanti. E sdegna il contadino, il muratore, l’artista e la maestra. Il primo che rivolta le zolle, l’altro che scuote la sabbia tra i mattoni, l’artista che mescola i colori e la maestra che legge sui libri i nomi dei bambini.

Una pena e una penale che rimbrotta i cuori. Pompa il sangue al cervello e lo risucchia come una ventosa. Annigrica le vesti. Mangia le teste pulite. Processa i santi e pure i lutti. I porci e pure i buoi. I criminali e i lavoratori. E con requiem aeternam, anche la gloria di una Calabria da sempre regia e magna per le sue antiche gesta e la sua mirabile storia. I suoi dolci vizi e le sue amabili virtù.

Il processo è alla ndrangheta, non alla Calabria. Il processo è alla categoria dei tinti, non ai Bruzi. Allo sfregio, non alla bellezza. Cosenza, Crotone, Vibo, Catanzaro e Reggio, Calabria Ultra e Calabria Citra, dispongono di ben altro che la ciotià della ‘ndrangheta. Ma da dietro gli schermi non passa, in prima serata e in primo piano sarebbe troppo. Così non si intravedono che appena i pochi scorci lontani, di una vita naturale e tranquilla, che quaggiù si vive a tutt’oggi. Laboriosa e impegnativa più che altrove.

Il processo è alla ndrangheta, non alla Calabria. La ‘ndrangheta è un sistema. La Calabria è una terra. Calabresi si nasce, uomini di ‘ndrangheta si diventa.

Il processo di dequalificazione a cui la Calabria, nel tempo, è stata sottoposta, affinché vi stesse comodo il proso di certuni, e quello dei calabresi onesti, finisse sfiancato di sacrifici e di lavoro, non è che un atto ignobile di cui tutto il paese è responsabile. E il nostro paese è l’Italia.

E in “Presa Diretta” se ne prenda il carico.

Dal 17 marzo 1861, l’affondo a questa terra non è mica finito.

I fatti e i misfatti della ‘ndrangheta, che coinvolgono il Sud, quasi sempre nella sua interezza, restano parte di una questione che nessuno profondamente ha mai voluto studiare. Che a nessuno è mai interessava. Che Milano, e tutto il Nord, hanno favorito. Volutamente indotto. Accettando compromessi, favoritismi, e inneggiando alla più spietata delle corruzioni.

Ma la Calabria non è la ‘ndrangheta. E ci sono uomini e donne che raccontano perfettamente questo spaccato di vita. Una verità che va urgentemente detta. E va chiamata con nomi e cognomi.

I calabresi sono uomini e donne d’Italia con “Credo” e con “Valori”, e come tali fermamente respingono i processi gratuiti fatti fuori dai tribunali, per mezzo dei quali si rischia di identificare come criminale tutta la società calabra civile.

Il processo è alla ‘ndrangheta non alla Calabria.

La Calabria è una terra viva che richiede apertamente di essere vissuta. Abitata. Perlustrata fin dentro la sua pancia. Con i metodi dello scandaglio, navigata. In andata e in ritorno, nelle acque aperte dei suoi due mari. I fondali blu dello Ionio, le secche pescose del Tirreno.

Non è sufficiente farsela piacere questa una terra così. Non basta esservi nati, per sentirvene parte. È necessario amarla. Svisceratamente. Dall’Aspromonte al Pollino. Come ognuno fa con la sua terra. Con trasporto sentimentale e sensuale. In presenza quotidiana. Con assidua frequenza di battiti, con precisi moventi e senza alibi. D’impulso anche, con la coscienza puntata sui sacrifici e le rinunce. L’offerta volontaria della propria vita.

Non basta dichiararle amore una sola volta. L’attestazione del sentimento che si prova, va obbligatoriamente ripetuta. Ogni giorno. Con fare ciclico e perpetuo. Con i gesti, gli esempi, il lavoro, la fatica, il senso di responsabilità, il coraggio, le opere, le prestazioni, la forza, ma soprattutto il tempo prezioso con cui ci si dedica a tutto questo.

La Calabria è un sentimento urgente. Uno stato d’animo che danna e rallegra. Ed è amara ed è bella.

E come l’amore, capita, non si sceglie. Ma va mantenuta. Come accade con le promesse.

È un destino dentro al cuore che ti prende e non lo sai lasciare.

Un destino prepotente che rischia di lasciarti senza niente.

Nessuno può amarla per obbligo o per capriccio, la Calabria. Giammai per gusto spicciolo o tornaconto personale. Si Perpetuerebbe l’ennesimo crimine.

E il processo della ‘ndrangheta diventerebbe, immediatamente, il processo della Calabria. (gsc)

Pubblicato in calabria | Contrassegnato , | Commenti disabilitati su IL PROCESSO È ALLA ‘NDRANGHETA NON ALLA CALABRIA

19 MARZO. AI PADRI

padre-e-figlia-20170821L’etimologia della parola padre è connessa a quella di pane . Fulcro di questi termini è la radice sanscrita pa-, legata al concetto di protezione e nutrizione, da cui pati, “antenato” del latino pater. Il padre è, quindi, colui che si assume il compito di provvedere alla sopravvivenza della famiglia e al suo sostentamento. I altre parole, il “pane” della famiglia!

Se c’è un momento preciso in cui l’uomo, quale primo eletto della specie umana, acquisisce consapevolezza della sua vita e della sua esistenza, è quello in cui diventa padre.
A lui, viene affidato, secondo il principio della Creazione umana, l’inizio della vita. D’esso si parla nella Genesi. E in esso, nella parte più intima e segreta, viene custodito il seme da cui la vita si forma.
Un preciso progetto ed un mistero senza precedenti che rendono l’uomo, PADRE.

Il 19 di marzo si celebra la festa del papà. Un fiore, una cravatta, un bacio.
Una poesia che poco importa se ha la rima baciata o il verso libero. Un idillio e una canzone.
Una dichiarazione d’amore.

Un padre è una potenza. È la primordiale forza della razza. È il coraggio, il tuo cognome.
La mano grande che ti accompagna, è la sua. La spalla forte su cui ti appoggi pure.
Non pretende, da. Non si stanca, fa. Non arretra, va.
È l’ostinazione, la lealtà, l’orgoglio, la dignità e il senso altissimo dell’onore.
Come San Giuseppe sta zitto e muto. Abbraccia la sua croce e prega.
Se parlasse non sarebbe lui: u patri, il babbo, il tata…

Auguri a chi è padre, a chi lo diventerà.
Ai padri di Calabria e alla loro dignità.

gsc

Pubblicato in calabria, cultura | Contrassegnato , , | Commenti disabilitati su 19 MARZO. AI PADRI

TAR vs REGIONE. LE GUERRE CHE IN CALABRIA SFIANCANO GLI STUDENTI

FOCUS_DAD_2100311
Dietro il buon funzionamento di un paese serve necessariamente il genio del suo popolo.
Politica, istituzioni, sanità, scuole, associazioni e classi sociali. Uno per tutti e tutti per uno. Buon senso e soprattutto responsabilità, pronti a portare, in tempi emergenziali soprattutto, a scelte pubbliche lungimiranti che non abbiano in assoluto mai scadenze elettorali.
Ma in Calabria, l’istituzione, definita più largamente con il termine più allargato di STATO, alla soglia massima dell’emergenza umana, non sfata miti e cronicizza le sue piaghe. L’emergenza invece di accelerare, rallenta. Azzera, in un battito di mani, ogni genere di responsabilità, e il buon senso le deraglia come i treni sui binari, portando via con sé, sui binari astratti dell’indifferenza, i valori inequivocabili della società civile, su cui, come sui testi biblici, è fondato lo spirito dell’umanità intera.
Accertate le fragilità croniche che la Calabria si trascina da decenni in ambito sanitario e non solo, a soffrire questa era pandemica, con cicatrici profonde sulla propria identità, è soprattutto la scuola. Il luogo in cui si forma e si forgia il più prezioso materiale umano del paese. Studenti, docenti, dirigenti, personale… Un ensemble di individui che a differenza d’altri, hanno sulla società intera un peso enorme.
La pandemia, in quanto tempo di progressiva anomala aritmia, mette in discussione il valore dell’essere umano in quanto tale, e in più la sua collocazione all’interno del mondo che in termini di progresso egli stesso ha modificato, con purtroppo cenni di effettiva instabilità a ogni margine di livello.
DAD O PRESENZA?
La scuola, in Calabria, rimane vittima di un acceso ed eccessivo focolaio politico, le cui beghe rocambolesche si snodano tra un duo d’eccellenza, Regione e Tar. Una dualità senza precedenti che, in Calabria, manda al macero anni e anni di impegno sociale da parte della scuola, dove gli studenti risultano essere i primi individui costitutori della società civile che conta, e sulla cui formula si stima la crescita del paese.
In Italia, a un anno esatto dalla pandemia, con 100.000 morti sui bollettini ufficiali e sulle coscienze, l’emergenza, se non tempestivamente arginata, rischia di diventare normalità. E l’industria della scuola continuerebbe a soffrire al pari di quella economica. Con conseguenze evidenti sul futuro della società moderna e dei progetti che su di essa, ogni singolo studente si costruisce.
“La scuola è un posto sicuro”, si è sostenuto per mesi. Ed è vero. È il più certo degli investimenti che una comunità può fare.
La scuola è quella certezza che protegge dalla strada, dalle insidie, dalle provocazioni. È lo scudo perfetto, necessario e indispensabile contro l’ignoranza, la mala gestione, la corruzione. È l’unica fabbrica vera che per legge e per coscienza, costruisce uomini liberi, e imbastisce le basi per il loro futuro. Ma contro il Covid, certezze non ne da. Non ancora.
Studenti costretti per ore a rimanere immobili tra i banchi, con le finestre aperte anche d’inverno per il ricambio dell’aria, nel più rigido regime del distanziamento sociale, non è scuola.
Studenti obbligati a non lasciare l’aula, senza intervalli, zero corse nei corridoi, nessuna pacca sulle spalle, e con proibizioni all’inverosimile, come scambiarsi un libro, prestarsi una gomma, copiarsi i compiti, o suggerirsi qualcosa, non è scuola.
Studenti senza la gioia dei 100 giorni, i laboratori in esterna, gli stage di lavoro, e con le bocche coperte fino al massimo delle ore da insopportabili mascherine, non è scuola.
La scuola vissuta in presenza non può essere frantumata così. Perchè se anche in formula di regime, continua ugualmente a insegnare Dante, Petrarca e Boccaccio, mai potrà a Matteo, Chiara, Roberta, Bianca e a tutti gli altri, offrire le basi libere su cui fondare la loro vita al di fuori dalle sue mura. Per tutto questo diventa necessaria la libertà assoluta nella pratica dei valori. E il Covid, ahinoi, non lo consente.
In era Covid, nasce la DAD. UN destino? No, una situazione d’obbligo.
Ci sono ragazzi che al ritorno da scuola si sono sentiti responsabili per aver portato a casa, quali principali vettori di contagio, il virus del Covid 19, con conseguenze fatali su componenti della propria famiglia. E le colpe sono dure da sopportare a certe età. Ci sono studenti, anche piccoli, su cui il Covid ha dato spettacolo, lasciando vuoti per sempre i propri banchi di scuola; e poi ci sono giovani liceali o universitari che hanno perso le madri, i padri, ma anche i nonni; e ci sono bambini della materna che sacrificano la lor età più bella, per mantenere vive le loro vite.
DAD O PRESENZA? REGIONE O TAR?
Questo è il problema!
Un rimpallo che in Calabria va avanti ormai da mesi, come un fosse un gioco di magia. Scuola apri, scuola chiudi. Ma la scuola non è un negozio con un’apposita saracinesca. Che se la chiave gira a destra apre, e se invece torce a sinistra chiude. La scuola è l’angolo più sacro della società civile. È la suprema corte della formazione dell’individuo. E non fa giochi e non fa scherzi, nè si presta a terzi per far smuovere batacchi di campane politiche a nessuno e per conto di nessuno.
Quella Tar- Regione, più che una sfida, in Calabria, assume i connotati di una corsa. Chi arriva prima?
Nella gara, chi tifa Regione e chi Tar.
Uno sport estremo in cui gli studenti calabresi si ritrovano davanti due enti moralmente miseri.
gsc

Pubblicato in calabria | Contrassegnato , , , , , , , | Commenti disabilitati su TAR vs REGIONE. LE GUERRE CHE IN CALABRIA SFIANCANO GLI STUDENTI

OTTO MARZO

mimosa-673238_1920
Oggi osservo la mia terra, e la vedo come ieri e come domani, avere lo stesso corpo delle donne. E non è estranea a nessuno. Nessuna donna lo è.
Osservo mia madre, e come ieri e come domani, la vedo operosa col santo pondo che le donne hanno, quando diventano Madonne.
Osservo mia nonna, e come ieri e come domani, la vedo ninnare, avvolta in uno scialle, mia madre, col canto melodioso delle donne.
Osservo mia figlia, e come ieri e come domani, la vedo sollevarsi da terra coi piedi nudi e con addosso il bello delle donne.
Osservo le schiette e le maritate, e come ieri e come domani, le vedo rassettarsi meticolosamente i capelli, facendosi con trecce, i tuppi arcani di tutte le donne.
Osservo l’Aspromonte, e come ieri e come domani, lo vedo premurosa madre come tante sue donne, lì nate o pellegrine.
Osservo il Pollino, e come ieri e come domani, lo vedo partorire come le madri coi figli, l’altezza di loricati femminili e belli.
Osservo lo Ionio e il Tirreno, e come ieri e come domani, vedo le maree che con garbo femminile fanno il ballo tondo del mare.
E infine osservo me, e come ieri e come domani mi vedo. E nel registro della vita sono donna, figlia, sorella, moglie, madre. Segno di riconoscimento, tutti i fiori dell’orto. Che impiegano tutti i giorni dell’anno per sbocciare a primavera.
Perchè non è solo un mimosario la vita di una donna.
#donnetuttiigironidellanno #ottomarzo #festadelladonna

Pubblicato in amore, cultura | Contrassegnato , , , | Commenti disabilitati su OTTO MARZO

PRIMA IL NORD UN CAZZO! lettera al ministro Garavaglia

vvCaro, ministro Garavaglia,
le scrivo queste poche righe, per dirle, da calabrese, che condivido anch’io, lo slogan che con orgoglio pubblicizza in verde padania sul suo sito personale.
PRIMA IL NORD
E mancu li cani ca chi è?!, direbbero dalle mie parti.
Invece è così.
Prima il Nord, perchè è giunta l’ora, che vi facciate avanti per primi, gli altitaliani, per rendere, come si conviene, al Sud, tutto ciò che gli è stato portato via. I sacrifici, la libertà e il lavoro.
Prima il Nord, e dice bene, perchè è proprio a quelle terre che tocca inchinarsi per prime ai lavoratori del Sud. Che ai padroni hanno prestato sempre i loro talenti, industrializzando con dovizia il Settentrione.
Prima il Nord sì, perché è proprio a quelli come lei, che tocca per primi, dire la verità sul mio Sud. I patimenti, le ruberie, l’odio, i pregiudizi …
Ma se ci penso bene…, prima il Nord un cazzo, signor ministro!
E glielo dico con il cuore. Da terrona, quale sono.
E glielo dico soprattutto ora, in questo momento triste e buio per tutto il paese, in cui la mia gente è particolarmente stanca di essere rilegata costantemente in un solo pezzo dello stivale, come se per il resto della Nazione non esistessimo affatto.
Basta. Basta. E ancora basta.
Si ponga fine alla dualità tra Nord e Sud. L’Italia è una terra cucita tutta d’un pezzo. Non va frazionata. Lo stivale è una calzatura che oltre al piede copre la caviglia e la gamba. E non si indossa mai senza il tacco, o senza la punta, o il gambale. Lo stivale, è un pezzo unico. Altrimenti si scelga una scarpa… E l’Italia non lo è!
Se le ricorda le paludi del Nord lei, ministro Garavaglia, lì dove grazie alle braccia dei nostri uomini sono nate le prime industrie? E le fabbriche, quelle che si sono fatte grandi con la manovalanza meridionale, se le ricorda tutte pure quelle? E le famiglie del Sud, a cui voi settentrionali, affittavate appena le porcilaie, perché le case ai meridionali “no”, arrassusia -manculicani, se le ricorda?
Tutta roba stolta e sudicia di Meridione di cui però vi siete serviti e lo fate ancora. E allora dico, forse non è meglio tacere? E magari navigare responsabilmente in ambo le direzioni, piantando tutti assieme, su ogni fianco della penisola, un’unica bandiera? O no?
È facile lavorar d’effetto, come i massimi scapigliati, facendo proclami di orgogli, gridando: PRIMA IL NORD, e poi “fuori dal culo mio dove piglia piglia”. Non è vero, signor ministro? Ma si dimentica però, che quel culo lì, lo abbiamo sempre parato noi. Quelli del Sud, che di starcene con le mani in mano non ce l’abbiamo fatta mai. E pure a perdere ci siamo sempre dati, e ancora ci diamo per la verità, anima e corpo.
Quando il Nord, per esempio, arriva quatto quatto al Sud, stanco e provato, quaggiù trova sempre una casa in cui stare. E anche se sconosciuta, è una casa che lo aspetta.
Allora, PRIMA L’ITALIA, Garavaglia. Non vedo slogan migliore che possa attrarre a sé tutte le folle possibili. E a un buon intenditore di “Turismo”, poche parole bastano.
Auspico dunque, che da domani, sulle sue pagine, ma soprattutto nel suo cuore, vi sia una sola parola d’ordine e un unico proclamo: PRIMA L’ITALIA.
Augurandole un proficuo lavoro per il bene paese, da Nord a Sud, con viaggi di andata e di ritorno, cordialmente la saluto
Giusy Staropoli Calafati
la calabrese

Pubblicato in calabria, cultura | Contrassegnato , , , | Commenti disabilitati su PRIMA IL NORD UN CAZZO! lettera al ministro Garavaglia

LETTERA AI FIGLI DELLA PANDEMIA

c1
Essere madri è un non mestiere che rende le donne le vere animatrici della vita dei figli. Le madri della pandemia sono madri a mezz’aria. Come le madri dei figli della guerra. Ci sono tempi in cui la forza dell’amore non sempre basta. Ma le madri non posseggono altro.
***
Cari figli,
Non avrei mai immaginato, di dovervi chiedere scusa, un giorno, per avervi messi al mondo.
Mi ne ero innamorata delle sue meraviglie, ma poi improvvisamente tutto è cambiato, e a tornare indietro non ci sono più riuscita.
La coscienza pesa. Le colpe inevitabilmente schiacciano. E non ci sono più né pace né sonni tranquilli.
L’abbiamo combinata grossa noi madri. Di ciò che Dio ci ha donato non abbiamo saputo proteggere nulla. Neppure i figli. E per questo vi chiedo perdono.
Perdonatemi per avervi sottratto la meraviglia del futuro;
Perdonatemi per avervi preso indegnamente anche il presente;
Perdonatemi per avervi rubato la libertà;
Perdonatemi per aver compromesso la bellezza del vostro tempo.
Vi ho voluti, vi ho cercati.
Vi ho amati come solo una madre può fare;
Vi ho cresciuti come solo una donna che diventa madre, fa.
cMa dalla pandemia, da questa triste storia, non vi ho saputi trarre in salvo. Eppure sono io vostra madre. Toccava a me proteggere le vostre vite, ma non ho trovato un solo modo per farcela. Ci ho provato, ma da sola non ci sono riuscita.
Ho trascorso giorni e giorni, inerme, sempre lì, a guardarvi dal buco della serratura, chiusi nelle vostre piccole stanze, mentre le lacrime mi facevano singhiozzare il cuore. Vedevo la solitudine dei miei figli.
Che posso fare per loro?, mi chiedevo, ma non ho mai trovato la soluzione giusta. E ancora mi chiedo dove sia…
Per ore e ore, sono rimasta sempre lì, silente, dietro le porte delle vostre camerette, ad ascoltarvi le voci, mentre passavate le ore di scuola davanti ad un inanimato pc.
Ma ugualmente, non ho saputo escogitare un piano preciso per portarvi lontano, dove il mondo è diverso. Diverso da qui.
Vi chiedo perdono, figli miei, se non sono riuscita a proteggere i vostri sogni; se non sono stata brava abbastanza a fermare il tempo a quando eravamo felici; ma soprattutto vi chiedo perdono per non essere riuscita a salvarvi dalle lacrime dell’incertezza e dal pianto dello sconforto.
Avessi potuto, le avrei prese tutte io le vostre pene, e me le sarei caricate sulle mie spalle. Insieme alla tristezza e all’accoramento. Ma non è possibile, il vostro tempo non è il mio, non è la stessa cosa. Non si possono scambiare i dolori. Potessi, morirei ora, per salvarvi per sempre da questo tempo infelice. Riconsegnandovi il mondo che avrei voluto per voi. Così come Dio lo aveva pensato. E di cui mi ero innamorata. Ma neppure questo è possibile. Le responsabilità vanne scontate.
Quel che è andato perduto, lo sappiamo bene tutti, non sarà più recuperato. E questi anni persi, racconteranno una storia che se anche voi mi perdonerete, e fatelo se potete, vi prego, io non potrò farlo mai.
Sempre vostra
mamma
gsc

Pubblicato in calabria | Contrassegnato , , , , , , | Commenti disabilitati su LETTERA AI FIGLI DELLA PANDEMIA

CORONAVIRUS. BRIATICO, LA NUOVA ZONA ROSSA SI TINGE DI AZZURO

0
Qualunque intensità di rosso sia, sempre vestita d’azzurro resta. È Briatico, la bella città del mare. Il borgo delle leggende, di Ulisse e delle sue sirene. Una conca di terra travolta dal cielo e dal mare, che per una soffiata di vento avverso, diventa anch’essa vittima degli attacchi vili di un’entità biologica infettante, che anche qui ha deciso di spirare. Come scirocco e come tramontana. Come libeccio e maestrale. Con folate sprezzanti e amare.

Dopo essere uscita indenne dalla prima ondata che vide l’Italia stretta nella morsa del Covid 19, lo scorso marzo 2020, Briatico, per quanto rocca forte sopra il mare, non riesce a superare con la stessa egregia valenza, la seconda ondata a cavallo della terza, da essere dichiarata zona rossa nella scorsa giornata del 2 marzo 2021. Non sono bastati né la brezza né lo iodio e neppure la spettacolarità del suo clima, a rendere immune dal Codiv il piccolo centro costiero. 53 positivi al test molecolare, 6 ospedalizzati, 9 positivi all’antigienico in attesa di ulteriore conferma. Motivo per cui, il borgo marinaro che fu dei Pignatelli, subisce, assieme ai centri dell’entroterra, di Dasà, Sorianello e Gerocarne, l’ordinanza con cui il Presidente ff Spirlì, istituisce le nuove zone rosse sul territorio regionale.

Un colpo di coda che ha effetto su tutta la comunità. La scuola, il commercio e ogni singolo cittadino. Tutti vittime di una stanchezza che dura ormai da troppo tempo. Un anno esatto in cui l’uomo, al centro del mondo, viene con le sue stesse azioni, privato di quasi ogni forma di diritto, come libero individuo, a tutela della propria salute. Con Briatico, città dalla sublime vista, con i tramonti sopra la bocca dello Stromboli, diventa rosso, più della sciara di fuoco del vulcano, uno dei pezzi di Tirreno più belli della costa degli Dei.

Il Covid non da attenuanti e non ha alibi. Si insinua nella cittadina marinara, come in ogni parte del mondo, in maniera subdola e prepotente. Privo, come è solito dei virus, di ogni possibile dote di discernimento. Un focolaio che parte dalla parte più intima del paese, la chiesa, e dilaga ovunque. Come se nessuno avesse più santi in paradiso. E accade tutto in tempo di varianti, quando il trasmettersi del contagio risulta più veloce e fatale, mostrando finanche agli increduli la sua esistenza, la sua super potenza e soprattutto la sua efficacia. Solo pochi mesi fa, il piccolo comune vibonese, aveva superato un evento che, quasi con il grido al miracolo, alcuni avevano letto come presagio di una brutta sventura.

La Statua lignea della Vergine Immacolata, compatrona del centro costiero, la cui storia risale alla vecchia Briatico, onde fu ritrovata illesa tra le macerie dopo il terremoto del 1783, lo scorso dicembre, è stata tratta in salvo dalle fiamme, causate da un incendio spontaneo divampato nella parrocchia. Un preavviso? Un presagio? La credenza popolare dice di sì. Ma la speranza tra i briaticesi non muore. E se la Madonna esce illesa dall’ennesima prova, anche per Briatico sarà lo stesso.

La fede è tanta tra, ma lo sono anche la tristezza e lo sconforto. E soprattutto la rabbia, contro gli scapigliati, gli irregolari anonimi e nominativi, che senza un minimo di buon senso contribuiscono alla diffusione del contagio, rendendo così nullo il concetto univoco di libertà: “dove comincia quella degli altri, finisce la mia”.

Aumentano le incertezze e le disillusioni. Per Briatico come per il resto delle comunità calabresi e italiane. I programmi dei giovani per il futuro prossimo, saltano; i sogni rimangano accatastati nei cassetti. C’è attesa, lentezza e soprattutto solitudine. Perdono ogni principale funzione la scuola, la chiesa, i campetti di calcio, quelli di bocce, gli oratori e tutti i centri di sviluppo e di aggregazione su cui si fonda una vera comunità. Persino i momenti conviviale delle famiglie. Le strade diventano deserti africani; le barche rimangono ormeggiate silenziose sulla riva, e le saracinesche dei locali, sigillate e chiuse. Eppure l’estate è alle porte. Il mare non ferma la sua rema. Infrange sulla riva e non smette di rumoreggiare. I paguri escono dalle conchiglie, gli animali si svegliano dal letargo, e i gabbiani continuano il loro volo mentre le rondini sono già di ritorno.

Era il tempo della preparazione, marzo. Quello del riavvio e dell’operosità. Ma neppure un marinaio o un contadino possono ritornare tranquilli all’opra loro. Così, in questo fermo obbligato della vita, nel principiare della più bella stagione, con i campi carichi di acetosella, e i nidi sacri sotto i tetti, il tempo diventa di riflessione e di preghiera. Dopo la tempesta tornerà la quiete, così come dopo la quaresima è sempre Pasqua di resurrezione. E se trova conferma la tesi che per raggiungere la felicità bisogna passare per il dolore, a Briatico, e nel mondo, dopo il rosso del Covid, non resta che l’azzurro del mare. Il vero colore che porta all’infinito. E rende liberi. Una nota canzone dice “quando tutto sarà finito, torneremo a riveder le stelle”. Quel giorno, per i briaticesi, l’appuntamento sarà al solito posto. Sutta a turri. Ad accogliere turisti ed emigranti.
gsc

Pubblicato in calabria, eventi | Contrassegnato , , , , | Commenti disabilitati su CORONAVIRUS. BRIATICO, LA NUOVA ZONA ROSSA SI TINGE DI AZZURO

CORAJSIMA -TRADIZIONI DI CALABRIA

coraisima“Nesci tu porcu luntruni ca trasu io l’arricriata, m’arrichiju sti figghjoli di cichiti e ravioli”.
***
Con il Mercoledì delle ceneri ha inizio il periodo della Quaresima, un tempo forte in cui, come dice papa Francesco, è necessario capire dove va il cuore. Un tempo antico, che le nonne scandivano e rimarcavano attraverso una bambola appesa sopra la porta delle loro case. Corajsima. Così veniva chiamata la vecchia penzolante, vestita di nero, che tradizionalmente veniva ricordata come la moglie di Carnevale.
Alla ‘papa di pezza’, comunemente definita, veniva affidato il tempo della prova, ché dopo le abbuffate ostentate di Carnevale, serviva purificare l’anima, espiare i peccati, e arrivare più puri che mai alla Santa Pasqua.
Attraverso l’imposizione delle ceneri del mercoledì di quaresima, inizia un cammino di recupero importante, durante il quale è proprio la vecchia Corajsima a dare aiuto, conforto e consolazione. Un periodo di prova, che permette di giungere puri e sanificati, alla Pasqua di Resurrezione.
Una tradizione antica che trova le sue radici in varie aree della Calabria, dalla montagna alla marina.
Corajsima è una sorta di bambola votiva. Vestita di nero, con un copricapo bianco e un grembiule dello stesso colore, che si movimenta con l’incedere dell’aria. Mai inoperosa. Tra le mani infatti teneva un vecchio filaturi, con cui, metaforicamente, veniva rappresentato lo scorrere del tempo.
Ai piedi della bambola, al confine della sua veste nera, una piccola retina di stoffa, in cui veniva adagiato un limone e nel quale poi, con sentimento di voto, venivano infilzate sette penne di gallina. Una per ogni domenica di quaresima. E tutto come fosse un gioco. “Gaineja zoppa zoppa, quantu pinni teni in coppa?”.
Il gioco delle nonne, delle donne antiche, che tra sacro e profano ricordavano a se stesse e agli altri, che dopo il dolore, il tempo è sempre tutto della gioia. Contestualizzando finanche la vecchia parabola secondo cui Dio affligge e non abbandona. Perchè esso torna sempre, e rinasce insieme noi.
Una vecchia tradizione, quella della Corajsima calabrese, che purtroppo pare stia andando scomparendo. Raro ormai ritrovarne appese davanti le porte delle nostre case. Anche se per fortuna c’è chi ancora, credendo nella tradizione popolare, ne perpetua il rito, riproponendone le origini. Studiosi come Andrea Bressi, che in Calabria, risulta essere tra i conoscitori massimi delle Corajsime.
Nella tradizione popolare, è depositata in pienezza la fede del nostro popolo. È lì che bisogna attingere per dare al futuro un senso migliore. E Corajsima, ne è la prova.
“Corajsima mia chi fusti longa”.
gsc

Pubblicato in calabria, cultura, Tradizioni | Contrassegnato , , , , , , , | Commenti disabilitati su CORAJSIMA -TRADIZIONI DI CALABRIA

MIMMO GANGEMI CANDIDATO ALLO STREGA

2021_mimmoIl riscatto della Calabria può venire dalla letteratura? La conferma la da Mimmo Gangemi, con la sua candidatura allo Strega.

Dall’uscita della nuova creatura dello scrittore palmese, datata 9 febbraio 2021, alla candidatura dello Strega di qualche giorno fa, il tempo è stato davvero breve. E non è un caso. Ci sono romanzi che sono semplicemente libri, altri come quello di Gangemi, che sono vere e proprie opere letterarie. E il fiuto di Raffale Nigro, che ha proposto il libro al prestigioso premio, di certo non sbaglia.

Il popolo di mezzo (edito da Piemme), dopo la Signora di Ellis Island, sarà destinato a diventare un nuovo capolavoro della letteratura italiana. Una penna che graffia e lascia tracce quella di Gangemi, che con realtà e crudezza narra la storia di uomini su cui, da secoli, grava l’occhio e il giudizio del mondo. Un popolo di mezzo appunto che, costretto, cede alle lusinghe del bisogno e sempre e solo per fame. Un Sud in continuo viaggio, alla ricerca del giorno nuovo, che anche oltreoceano, nonostante i sacrifici e i pianti, è destinato a mischiarsi con la terra che in Patria ha scansato partendo.

Un’alternarsi di emozioni fitte, che non danno tregua e che sin della prima pagina rapiscono il lettore che, con naturalezza, diventa esso stesso coprotagonista della storia.

Mimmo Gangemi, nella vita, come è noto, è un ingegnere di professione. Un professionista, dunque, prestato alla letteratura come dicono alcuni, ma le cui opere confermano invece l’esatto contrario. Gangemi resta, infatti, un grande scrittore prestato alla professione. Non vi è alcun dubbio. Un narratore di razza le cui storie vengono tessute con severa maestranza, da rendersi raffinate e perfette lenti per guardare il mondo.

A portare lo Strega in Calabria, e per la prima e unica volta, fu Corrado Alvaro, nel 1951, con l’opera Quasi Una Vita. Da allora nessun altro autore ‘nostrano’ ha più conquistato il podio.

Sarà questa la volta buona?

Il percorso è ancora lungo e in salita. Ma la grandezza del romanzo, da tutti i venti a favore.

«È solo una candidatura che si fa compagnia con tante altre, benché sia stata avanzata da uno scrittore prestigioso» scrive Gangemi sulla sua pagina Facebook. E poi: «Incrociamo tutti le dita per il futuro» chiosa.

E ha ragione. Ma noi calabresi, si sa, siamo malati di orgoglio e appartenenza. Per noi lo Strega è già vinto. (gsc)

Sinossi del Libro

Quanto lontano si deve spingere un padre, per regalare un futuro ai propri figli?

In un’America prodiga e crudele, una grande saga su ciò che siamo stati. E abbiamo dimenticato. «Negri», così sprezzavano quanti agli inizi del Novecento giungevano in America dall’Italia. Anche perché «tanto bianchi non apparivano», erano il popolo di mezzo, sradicato dalle origini per cercare lì un futuro migliore. Masi e la sua famiglia, partiti dalla Sicilia, impattano sullo sfruttamento e sull’esclusione, sul pregiudizio e sul razzismo, che culminano in un barbaro linciaggio. Per i figli, Tony e Luigi, con indole e talenti differenti, si aprono strade difficili, tra le ondate della prima emigrazione e le due guerre mondiali. In un’America che cambia, ora sogno solo a osservarla da lontano, ora prodiga delle opportunità che sa concedere la terra promessa. Insofferente, il primo tenta di conquistarsi uno spazio, finché arriva a odiare l’inganno del nuovo mondo, e lo scianca con le sue vendette. Dotato di talento musicale, il secondo percorre la novità delle orchestrine jazz, imboccando la via per il successo. Dai campi di cotone ai cantieri per le ferrovie, dalla Little Palermo di New Orleans alla Little Italy nella dimensione metropolitana di New York, dalla Mano Nera agli albori di Cosa Nostra, dai bordelli di Storyville ai grandi ritrovi del jazz, dai diseredati seppelliti ad Hart Island alla strage di Wall Street, da un amore travagliato al campo di internamento per italiani resistenti. In questa narrazione epica e struggente, Mimmo Gangemi ci fa rivivere, con il coraggio dei grandi maestri, il senso d’estraneità e una nostalgia divorante, la speranza di piegare il destino e il sogno del ritorno, in una nazione che va rapidamente mutando pelle.

ph tratta dal web

Pubblicato in calabria, cultura | Contrassegnato , , , | Commenti disabilitati su MIMMO GANGEMI CANDIDATO ALLO STREGA

COVID 19: COSA SCRIVERA’ LA STORIA?

Adolescente-e1553856254826La pandemia reinventa l’uomo nel concetto proprio di essere umano. Nelle abitudini, la costumanza, le tendenze, i vizi, le fissazioni. Riducendo al minimo essenziale la condizione di libertà acquisita nel tempo.
La specie umana, sotto le sua stessa ombra, ritorna in un batter d’occhio allo stato primordiale sulla base della logica dell’essenziale, riscoprendo le proprie capacità di adattamento.
L’habitat naturale in cui, dai tempi di Adamo ed Eva, l’uomo si è amato procreando, diventa, nel tempo, oggetto di raccapriccianti modifiche. Riscaldamento globale, mari di plastica… Un creato perfetto e indiscutibile quello che gli era stato consegnato da Dio, ma di cui, tra smanie e manie, abusi e vizi, non ha mai saputo fare buon uso. E oltraggiando il capolavoro del Signore, ha scombinato fino all’inverosimile la sua stessa vita. E forse il Covi è la traccia finale che serviva alla storia per scrivere il declino umano.
Due pesi e due misure. Mentre sull’uomo adulto, lo sfinimento epocale viene baipassato dalla rassegnazione di una vita ormai mezza vissuta, su quello più giovane invece si vanno tatuando cicatrici indelebili.
Una epilogo triste, in cui le colpe dei padri ricadano su quelle dei figli.
Percettibile al millesimo è lo scuramento che giorno dopo giorno, si annida negli occhi e nell’animo dei ragazzi, che da circa un anno si vedono costretti, oltre ogni immaginabile misura, ad un progetto di vita brusco e quanto mai disadattato, lontano dai criteri che la vita stessa impone nella sua normalità.
Il Covid 19, entra infatti, nell’intimità della società post-moderna con una botta di coda ineguagliabile. Si insinua impietoso tra i bambini e in mezzo agli adulti. Con spettacoli da giullare, avanza in mezzo alle piazze, nelle scuole, sul posto di lavoro, nelle case e dentro le chiese. Sottraendo speranze e stabilità, come avvenne con le guerre e le carestie, alla generazione prossima e del futuro, dichiarandola tutta solo del presente.
Ce la faremo, scrivevamo cantando dai balconi, a marzo. Ma oggi, senza cantare invece scriviamo che non ce l’abbiamo ancora fatta. E di quest’ultimo testo, lugubre e spettrale, ora che siamo quasi a marzo, ma dell’anno seguente, i giovani, pretendono una vera parafrasi. E che sia di pancia. Con fatti e non mere parole.
In gioco c’è la vita. La loro più di tutte . Sul banco dei pegni spicca il futuro sociale, i sogni collettivi, i progetti. . .
“Raffaele è al primo anno di accademia cinematografica. Roberta a giugno farà la maturità. Antonino frequenta il primo anno di liceo. Nazareno è in quinta elementare.”
Chi comincia, chi finisce. Storie che potrebbero essere moltiplicate per 10, per 100 e per 1000. E che si ripetono da Nord, a Sud. Dall’Italia, al resto del mondo. Ma che restano fragili, monche. Anacronistiche. Macigni con aggravio sulla psiche umana, già labile e controversa per natura.
Serve un urgente recupero della normalità. Di quella condizione riconducibile alla consuetudine, interpretata con regolarità e ordine. Ma il prezzo da pagare pare sia troppo alto. Una medaglia dalle due facce tristi . Che se cade testa, l’allarme suona sul futuro compromesso dei ragazzi giovani, e se cade croce sulla loro salute e su quella dei propri cari.
Così si naviga tutti senza una precisa destinazione. Colti da scompiglio e sconcerto, agitati da una strana incertezza collettiva, dentro un mare quasi mai caligine, mosso da responsabilità importanti e imprescindibili che rimpallano, senza mai toccare terra, tra politici e scienziati, ministri e presidi, istituzioni e cittadini. Senza che nessuno mai si carichi di verità e coraggio, e faccia scelte precise, quanto mai storiche. Giuste o sbagliate, che a un certo punto poco conta.
Si gravita, come disperati e folli, tra dubbi e confusioni. Da Vibo Valentia a Milano. E alla domanda dei figli, fermi sull’uscio delle porte con i trolley in mano: Che faremo noi?, incalza comunque e ovunque l’istinto delle madri e dei padri di voler spaccare il mondo. Giustificare l’inerzia. E infine raggiungere il Covid, ovunque esso sia, specie quando si vede posarsi tra le rughe sagge degli anziani, stanarlo, sputargli in faccia, e poi fare lo stesso con tutti coloro che oggi avrebbero dovuto dare risposte, ma persistono a non volersi assumere precise responsabilità.
Si trascina lenta una barca che non si sa dove andrà a finire. Quali mari solcherà e quali approdi riuscirà a raggiungere. Se toccherà la riva, tornerà a essere una salvifica Arca, o come una leggera zattera verrà portata via dalla corrente.
Cosa scriverà la storia?
(giusy staropoli calafati)

Pubblicato in calabria | Contrassegnato , , , , | Commenti disabilitati su COVID 19: COSA SCRIVERA’ LA STORIA?

LAGGIU’ SOTTO LA FIORITURA DELLE ZAGARE – racconto

bbbbb– Quando partimmo per la Svizzera, la prima volta, era notte fonda.
Fu un lungo viaggio. Il freddo era buono per curare i porci. Mancavano un paio di settimane a Natale. E noi partivamo come i pastori. Imbacuccati in una sciarpa di lana e in berretto. Chi fumava per i nervi, e chi invece si dannava di peccati per quella partenza a cui ci obbligavano e per un pezzo di pane.
Era bella la Svizzera. Ma non era il paese. C’erano tante case, ma non la nostra. E poi tante famiglie. Ma non erano le nostre.
Prendemmo a lavorare come schiavi. Era duro il lavoro della fabbrica. Peggio che la terra. Ma pagavano. E si poteva mandare i soldi a casa. E far comprare il pane per le moglie e i figli.
Ma non c’è pane abbastanza che sazia certe nostalgie.
– Oi, Fili’, il paese mi manca assai – ripeteva un mio compaesano.
– Pure a me, Giova’ – gli rispondevo.
– Mi manca l’aria . Qua mi pare che non respiro bene. E me lo sogno tutte le notti, il paese. Poi mi sveglio e niente. La Svizzera. Non so se ci resisto io qui… – e poveretto supplicava la Vergine perché quella prigionia finisse presto.
– Dobbiamo farcela, Giova’ – gli dicevo io. – Per le nostre donne. Le nostre case. E un pochino pure per noi – cercando di rincuorarlo.
– Ma perché dobbiamo vivere senza pane, senza soldi e col desiderio della roba d’altri, noi del paese?
– Il paese è un amaro destino, Giovanni mio.()
Quando da casa mi arrivava qualche lettera mi chiudevo nella stanza. Mi ficcavo sotto le coperte e senza che altr’aria vi entrasse cercavo attraverso il foglio di respirare l’aria di casa mia. E la sentivo. E com’era bella. Poi con la luce del lume che filtrava dalle lenzuola, leggevo quelle poche righe e sentivo mia moglie e poi i miei figli, Assunta e Michele. Li vedevo cresciuti però e mi dannavo. E bestemmiavo finanche il benedetto pane, che da una parte saziava il digiuno, dall’altra lo incrementava facendomi perdere di loro la parte migliore. E maledivo la Svizzera, il suo freddo e le sue fabbriche. Mi maledivo io stesso per non essere nato altrove.()
.
Quando mastro Filippo mi raccontò la sua storia, Non resistetti a starmene zitto.
– Adesso è diverso, signor Filippo – gli dissi. – Perché non tornate? Noi, laggiù, ci stiamo provando a cambiarla la nostra terra. A far restare la gente. A dare nuova opportunità. E la terra sta al gioco, sapete! Tornate e vedrete come tutto può succedere.
– Il problema, è che adesso sono cambiato anch’io giovanotto. Sono passati troppi anni. Io non riconoscerei la mia terra e la mia terra disconoscerebbe me. Un’altra volta forse.
– Non c’è un’altra volta, signor Filippo.
– Forse hai ragione, ma chi lo sa. Ho chiesto ai miei figli, il giorno che Dio vorrà, di essere sepolto laggiù, sotto la fioritura delle zagare. E se ciò avverrà, allora sì che tornerò. Quel giorno, tornerò davvero.
(giusy staropoli calafati)

Pubblicato in calabria | Contrassegnato , , , , , , | Commenti disabilitati su LAGGIU’ SOTTO LA FIORITURA DELLE ZAGARE – racconto

VITA DI PAESE -racconto

bbbbbLa vita nei piccoli paesi si sta man mano affievolendo. La morìa è in atto.
Ma non possono finire. Non voglio crederci.
Se un paese muore è perché nessuno dei suoi ha avuto il coraggio di concedersi a lui completamente, restandogli accanto.
L’anima dei paesi è fatta di cose piccine, di realtà quotidiane a volte minuscole. E ne ho conferma ogni giorno. Quando vado per la spesa, o incontro il maestro della scuola, o magari scambio due chiacchiere con la signora della merceria.
Così è accaduto anche oggi.
Il luogo della scena, è la putigha.
Chi compra il pane, chi la frutta, chi una bottiglia di vino buono. La signora Mela, vuole un chilogrammo di cocci al burro per cuocerli al camino. Dice che i fagioli di San Costantino sono i migliori.
Aspetto il mio turno al bancone del pane. Saluto Marina, che insacca panini da quando la conosco, e in attesa penso a ciò che mi serve.
Vengo improvvisamente distratta però da un intenso vociare. Mi volto e mi accorgo che è appena entrato il vecchio parroco del paese.
Vicino ho due uomini anziani che aspettano il pane anche loro. Niente, non resistono. Mollano la fila, vanno incontro al prete, e con riverenza salutano. Uno si leva addirittura il berretto dalla testa. L’ altro addirittura lo abbraccia.
Tutti gli danno del Voi come giusto che sia, mentre dispensa saluti cristiani, e sotto sotto gioisce, me ne accorgo da come li guarda.
Non ho una penna per scrivere, ma cerco di registrare tutto a memoria. Un momento vero di paese che non posso lasciarmi sfuggire. Di quelli in estinzione, con scene libere che capitano oramai di rado. Storielle antiche che raccontava mia nonna, e che è difficile vedere ancora.
Una volta i preti, i medici e il sindaco erano le figure più importanti di una comunità. Ed era il rispetto che rendeva tutto diverso, faceva tutto più bello e autentica ogni figura, nel ‘rispetto’ genuino del suo ruolo.
Oggi è la spontaneità che manca. Prevale la pratica del sempre e solo io, e mai del tutti noi. E non è questa la regola. Certo che non lo è.
I valori hanno senso quando si fanno esempio. Quando si assumono come fossero responsabilità. E della vita del paese, riteniamoci responsabili. Per noi e per i nostri figli. Abbiamone cura, perchè quello che verrà domani non siamo certi che ci piacerà.
#vitadipaese

Pubblicato in Briatico, calabria | Contrassegnato , , , , | Commenti disabilitati su VITA DI PAESE -racconto

IL TREMORE DELLA CALABRIA. 5 FEBBRAIO 1783 – DA REGGIO CALABRIA A BRIATICO

unnamed (1)Mercoledì, 5 Febbraio 1783. Ore 13:00, circa.

Un movimento inatteso, improvviso e brusco del sottosuolo, smuove la terra dalle sue più profonde viscere. Vengono rasi al suolo interi villaggi. Da Reggio Calabria a Mileto, capitale Normanna, fino a Briatico.

È il tremolizio della Calabria Ulteriore. Per i poveri cristi appesi alla zappa è la fine. Urla, pianti, grida. Morti a numeri pari da non raggiungere mai i dispari. Disperazione. Perdizione e follia.

Tutto quel che un attimo prima c’era, un attimo dopo non c’era già più. Una perdita di aveva colpa la terra, che fomentata dalle sue più vili profondità aveva sconquassato tutto ciò che gli uomini avevano costruito sopra di essa. La loro vita compresa.

I movimenti tellurici avevano da sempre spaventato la Calabria. Avevano sempre segnato una fine e un nuovo principio. E la Calabria mancava, per questo, di segni concreti di continuità nella sua storia.

Anche Briatico, piccolo villaggio della Calabria Ultra, sotto la giurisdizione dei Pignatelli, duca di Monteleone, venne rasa al suolo, perdendo circa 90 dei suoi già pochi abitanti. Un tragico epilogo che segna per sempre la vita di questa comunità. Molti, raccontava lo studioso, Padre Scalabriniano, Maffeo Pretto, colti dalla disperazione, impazzirono. Tutto presagiva la fine. Mancavano le forze, ma anche i mezzi per ripartire. La capacità di ricominciare. Poveri già si era, e più poveri si diventava. Ma non poteva finire davvero tutto così. Per un colpo di coda della terra.

Dunque, se nella storia della Calabria si è alla ricerca di un preciso riferimento temporale da indicare come inizio dell’era della ‘resilienza’ di questa terra, si consideri pure il 5 febbraio del 1783.

Se c’è una certezza che accompagna il mondo, è che la vita è sempre davanti agli uomini. Anche nello sconforto e nel disfacimento.

Nel piccolo villaggio di Briatico, che sorgeva maestoso, con il suo medievale castello, sopra un monte di pietra dolce, tra i fiumi Murria e Spataro, tornava a sorgere il sole la notte stessa in cui tutto appariva perduto.

Tra i resti della chiesa del Franco, la statua lignea della Madonna Immacolata, detta Maria del Franco, o del ginocchio per la postura datagli dall’artista, veniva ritrovata integra. Neppure un graffio l’aveva scalfita.

Un segno. Una speranza. Un prodigio del cielo che indicava che bisognava crederci ancora. Che si doveva e si poteva ancora sperare. E sia, si dissero i superstiti.

Il 4 aprile del 1783, la comunità proveniente dalla vecchia Euriatikon, incominciava la sua seconda vita. Dal sopra il monte, ove la città era stata distrutta, ci si spostò al cuore della sua marina. Ai piedi della torre saracena, ancora oggi vigile e viva, veniva siglato un nuovo principio. E da contadini ci si ritrova anche pescatori.

Grazie alla Madonna e anche al duca Ettore Maria Pignatelli, che per bontà d’animo e grazia di Dio, sulle sue vigne, ai sopravvissuti concedeva, benevolmente, di costruire le prime nuove baracche. Così che da terremotati si ritornava ‘uomini’ (gsc)

Pubblicato in calabria | Contrassegnato , , , , | Commenti disabilitati su IL TREMORE DELLA CALABRIA. 5 FEBBRAIO 1783 – DA REGGIO CALABRIA A BRIATICO

CALABRIA: Dal 1861 a Corrado Augias. L’ANALISI

ImmagineSe questa è terra, parafrasando Primo Levi, lontani da ogni coinvolgimento e dai falsi millantatori, la Calabria ha bisogno, e finalmente, di una sincera e profonda analisi.
Un’indagine accurata della sua vita, le manchevolezze e le virtù; un’esposizione precisa dei fatti che liberamente ha vissuto e dei misfatti a cui è stata nottetempo costretta. E a seguire, il tracciamento di una linea di sviluppo su un futuro prossimo ancora possibile per i calabresi.
Dunque un reale e profondo esame, affidato alla genialità e genuinità del suo stesso popolo. Procedendo passo passo, dall’individuazione allo studio dei particolari, fino alla scomposizione di tutte le sue parti. Inclusa la grandezza di cui ne è pregna, ma anch’essa spesso variabile nelle sue componenti.
Idee, ideali, visioni, lavoro, sviluppo, territorio, sanità politica…
Passato e presente. Presente e futuro. Futuro e basta.
“Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile”, diceva San Francesco da Paola, la cui visione della Calabria amplia ogni qual si voglia prospettiva.
***
Era il 1861, e nasceva come nascono i figli, la questione meridionale. La Calabria si trovava improvvisamente a doversi curare da sola le ferite delle razzie subite. E perdeva in un batter d’occhio, l’indipendenza e la libertà. Il mezzogiorno in cui è tutt’ora incastonata, veniva, e nella forma più terribile e vile, svuotato delle sue fabbriche, le flotte navi, le poste. E poi i valori, i sogni, la dignità, ma soprattutto i figli.
Una strage silenziosa di addii e di partenze obbligati che colpiva direttamente lo stomaco delle famiglie. Ed è lì, in quella parte del corpo degli uomini del Sud, che va ricercata oggi la prima causa del male, per cui, tra le altre terre, soprattutto la Calabria, rinnegata e derisa, piange ciclicamente se stessa.
Quando le mancava la farina, e i figli si stropicciavano gli occhi, e le madri si battevano il petto per il fianco del pane. Quando le rubavano le olive, e certe volte le boicottavano le terre, e su quello stesso suolo, le stupravano le mogli. Con violenza, senza pietà.
Allor quando, con il corpo, obbligata e oberata dal bisogno, risaliva verso la grande Italia, mentre l’anima le rimaneva lì piegata dov’era nata. Nella miseria acuta e ancora oggi incompresa, in cui i piemontesi l’avevano amaramente condannata. Così al dolore delle doglie delle madri, si aggiungeva quello forte delle partenze dei figli e dei mariti. Come soldati in fila alle stazioni, accalcati sopra i lunghi treni.
*
Erano giovani e forti. Non sono morti, ma son partiti in tanti. Che mentre con la forza delle braccia, ben forgiate nella durezza della terra nera, con i sacrifici e il pianto amaro delle spartenze, industrializzavano Milano e Torino, Milano e Torino, con la pratica del convincimento, al limite dell’assuefazione, li annoverava tra gli ultimi, gli sporchi, gli oziosi e i lenti. I fetusi e i tinti. I terroni infami. Gli stolti della terra inquieta.
***
Una terra da dove tutti partono, la Calabria. E verso dove, il ritorno è una scelta che solo pochi mettono in programma. Un terra dannata e sola. E nelle terre sole (diceva Saverio Strati) prolifica la mafia. Nelle terre sole, si incarognisce la mafia. Ed esse stesse, diventano improvvisamente asprimondi, e nel disagio sociale che imperversa, l’uomo disperatamente si concede (totus tuus). Se è adulto, e se è bambino. Perché nei campi fragili, negli orti incolti, e nei cuori ripetutamente tristi, attecchisce la più malvagia e maledetta di tutte le piante. Andragatia, o più comunemente ‘ndrangheta.
Malaffare, criminalità, ostentazione del rispetto, potere, vendetta, resa dei conti. Reclutamento di uomini, e giuramenti di obbedienza. Davanti ai santi e non ai fanti.
Nella solitudine della Calabria, il bisogno diventa mafia. E si radica ovunque trova morbido e scava profondo. Nella debolezza delle istituzioni, nel tentennamento più che accessibile della politica, nella fragilità assoluta del tessuto sociale. Attecchisce e velocemente cresce. Perchè quaggiù, alla Calabria appunto, nessuno viene per porgere aiuto. Nè restituisce quello avuto.
Ma a infilzare le ferite ancora aperte e sempre vive di questa ineguagliabile magna Grecia, ecco che arrivano ripetutamente, con il passo dei dominatori, il giudizio e il pregiudizio del mondo.
Dal 1861 a Corrado Augias, il tempo è tanto e pure lungo. La storie e le offese, altrettanto.
La Calabria, ahimé, ahivoi, ahinoi, a oltre 150 anni di storia italiana, non rinviene. E la sua questione rimane eternamente irrisolta.
Ma se è vero che alla base dei mali vi son sempre i rimedi, le cure e le soluzioni , la Calabria deva avere convintamente ancora un futuro nuovo davanti a sé. Così da finirsi Augias e tutto gli sfidanti come lui.
La morte, solo la morte che rende le cose, i luoghi e gli uomini definitivamente perduti e irrecuperabili. E la Calabria, dentro di sé ha ancora una razza viva. Che è il rimedio, la cura e la soluzione.
Una rivoluzione? No.
Una conversione definitiva alla calabresità, affinchè oltre al forestiero, il calabrese non sia più nemico del calabrese stesso. Che fomentato contro la sua stessa pena poi viene deriso. E si recuperi nel più breve tempo possibile l’amore dei calabresi verso la Calabria e quello della Calabria verso i suoi calabresi. Perché per tracciare la linea di sostenibilità del futuro ancora possibile per questa terra, urge uno scatto d’orgoglio che converta alla vera razza. Alla primordiale. Che è madre e figlia della lotta, del sacrificio, della ribellione, lontana dalla rassegnazione e dell’assopimento. Che è resistente, ma soprattutto resiliente.
Il calabrese non deve più attendere altri 150 anni ancora. Ma già da ieri, deve riuscire a ritrovare, la peccaminosa intimità con la sua terra, rinnamorandosi di lei e di se stesso. Rinunciando definitivamente a uomini come Augias, – che ve ne saranno sempre e saranno molti di più – che mai hanno contribuito, né col pensiero né con la parola, alla risoluzione della storica “questione meridionale, riadattandola invece in una ben più nera “questione calabrese”.
Dunque, meno chiacchiere e tabbaccheri i lignu. Il banco di Napoli non ne impegna più.
Risorse, investimenti, infrastrutture, impegni, ma soprattutto opportunità di SCELTA. Occasione che, ahinoi, non c’è mai stata data.
Ad analisi completa, i panni sporchi si lavano in famiglia.
I calabresi che concordano con la perdizione della propria terra, è l’ora che vadano. Quelli che invece intendono ancora concorrere per un nuovo futuro restando, è ora che decidano. Il futuro della Calabria e dei calabresi, è nelle nostre mani sporche di impegno e di lavoro.
***
In Calabria è stato commesso il più grave dei delitti, di cui non risponderà mai nessuno: è stata uccisa la speranza pura, quella un po’ anarchica e infantile, di chi vivendo prima della storia, ha ancora tutta la storia davanti a sé.(Pier Paolo Pasolini)
Giusy Staropoli Calafati
-scrittirce-

Pubblicato in calabria | Contrassegnato , , | Commenti disabilitati su CALABRIA: Dal 1861 a Corrado Augias. L’ANALISI

RESTO IN CALABRIA

,,
RESTO IN CALABRIA
***
Resto in Calabria perché non rinnego mia ‘madre’ terra;
Resto in Calabria perché sotto questa terra riposano i miei padri;
Resto in Calabria perché è qui che sono nati i miei figli;
Perché quaggiù bambini che sognano ne nascono ancora;
Resto perché la mia terra non può restare sola;
Resto in Calabria perché devo rispondere alle sue chiamate;
Devo sollevarla nelle cadute;
Resto in Calabria perché voglio che trovi sempre qualcuno, chi ritorna da lontano;
E resto perché qui ho imparato a mietere e a transumare. A fare la farina e a fare il pane. A fare la guerra, ma soprattutto l’amore.
Resto in Calabria perché la ‘malura’ non la tradisca sotterrandola, questa terra mia;
Resto perché il mondo non se ne scordi;
perché questa terra mia non si addormenti e i nemici l’assaltino nel sonno;
Resto in Calabria perché i miei sogni siano la sua veglia;
Resto in Calabria perché la Calabria è dentro di me, e le mie radici sono più forti delle mie ali;
E resto perché la Calabria è un destino dentro al cuore che ti prende e non lo sai lasciare;
Resto anche perché si muore dove si nasce, e io qui nacqui con il sapore del mosto, e quando la vidi, a mia madre, dissi: “questa è la mia terra”, e qui ci resto, perché altri vivano dopo di me.
E resto per chi non è rimasto, ad aspettare chi non è più tornato. Perchè l’identità mi dice che son meridionale e qui io ci resto a scoppiare, come le cicale, finché morte non mi separi, e un figlio mi atterri lontano senza l’odor dei mandarini.
IO RESTO QUI.
giusy staropoli Calafati
-la calabrese-

Pubblicato in Senza categoria | Commenti disabilitati su RESTO IN CALABRIA

CARO CORRADO AUGIAS SONO IO, LA CALABRIA

AUGIASCaro Corrado Augias,
sono la Calabria, quella tanto discussa terra all’insud che non ha pace.
Dopo il suo ultimo squallido e vile delirio, ho deciso di voler replicare. Perchè, mi creda signore, ho ancora una dignità anch’io.
I giudizi a iosa, che da tempo ormai vengono gratuitamente dati sulla mia pelle matura, da chi meramente mi conosce appena, e si concede (aggratis o dietro compenso poco importa), senza un minimo di ritegno, alle orge televisive e inconcludenti (di questa o quelle emittente chi se ne frega), senza un minimo di precisa analisi, soffermandosi esclusivamente sulla conformità esteriore del mio corpo, non conoscendo neppure l’ode che per me scrisse il mio amato Leonida Repaci, in cui rammenta a quelli che non sanno, il giorno in cui io nacqui, indicando come soggetto imputabile esclusivamente il corpo frastagliato che ho, senza procedere ad un vero e serio screening che rimembri in primis l’anima mia, incominciano a scartavetrare ogni genere di materna pazienza, che sempre tenni dalla Magna Grecia fino a oggi.
Ho sopportato invasioni, furti, insulti, bestemmie, e anche maledizioni, ma la mia educazione, il mio credo e la mia grandezza, non vengano giammai scambiati per cazzoneria.
A parlar di me di certo non ci guadagno io, e lei lo sa bene. Chi lo fa, più male lo fa, meglio gli torna il conto. Credo che si guadagni davvero bene a mettere alla gogna l’unica terra che ancora porta gli strascichi dell’Unità d’Italia. Così si va giù duro, infilzandomi il muscolo del cuore, che è l’unico di tutto il corpo, e lei sa bene, che rischia di spappolarsi per primo.
IRRECUPERABILE e PERDUTA.
A chi, Augias? A chi?
Dice a me, lo so. Lo so bene che dice a me.
E scommetto che anche lei, assieme a tutta la compagnia dei NoCalabria, si è sempre domandato quale cazza di capa storta ha avuto la genialata di mettermi al mondo così puttana e perversa, perduta e irrecuperabile, ma troppo bella e coraggiosa per non esistere.
Augias, Augias, la sua esternazione non è la prima e non sarà l’ultima, ma a parte il fegato che ho che mi aiuta a resistere nei secoli, ai corpi e agli urti, il tempo è breve e le parole di taluni intellettuali, nella cui cerchia oggi lei stesso si classifica, sono più brevi ancora. Troppo per perderci il mio tempo.
È vero, sono una terra irrecuperabile. Maledettamente irrecuperabile. Ma sa cosa le dico? Ne vado fiera. Quaggiù, tra i boschi, in riva al mare, dall’Aspromonte al Pollino, chi fino a ieri si è permesso di farsi il fatto suo con la mia roba e sulla mia pelle, oggi non non va grasso più. E allora sì che sono IRRECUPERABILE. È per questo che lo sono. Con dignità e orgoglio, lo sono. E sono anche fortemente PERDUTA. Perduta dai reader di quell’Italia che mi ha sempre voluta serva del sistema, arricchendosi sulle mie spalle e privandomi delle mie cose. Dalle fabbriche a tutto ciò che qui, nella mia pancia, nacque. Pure alla gioia d’essere io la Prima Italia.

La mia è una lunga storia, Augias. Triste e bella, profonda e travagliata. Sono caduta innumerevoli volte, ma mi sono rialzata. Ho visto molti dei miei partire, altri li ho visti morire. Ho visto uomini farmi la guerra, e subito dopo trascinarmici dentro. Ho visto le mie famiglie fare sacrifici, chiedere aiuto e pane, proprio quando da quelli come lei, illusi di vivere nella vera Italia, gli veniva portato via.
Eppure, quando ho dato all’Italia il suo vero valore, l’UNITA’ su tutti, perdendo tutto ciò che avevo conquistato con il mio coraggio, il sacrificio e le forze, e i figli sono la cosa più cara che una madre ha, nessuno ha pianto con me, o è venuto a portarmi consolazione. Ma se lo ricordi, Augias, in questo mondo, nella nostra piccola Italia, nessuno si salva da solo.
Ma se proprio è certo di ciò che contro di me ha affermato, occhi negli occhi, lo dica anche al procuratore Nicola Gratteri che la Calabria è irrecuperabile e perduta. Ma mi raccomando, glielo dica dopo lo stremo di una delle sue sudate operazioni, per cui non gli è venuto giorno e neppure notte. E poi con la stessa facilità con cui mi giudica, gli tacci come inutile il suo lavoro, tanto per le cose perdute nessuno può far nulla, neppure lui. Infine, da buon Italiano meritevole, si faccia portavoce al mondo del mio lutto, e dica: la Calabria è morta. È Morta, lo urli. Perchè vede, è la morte, solo la morte che rende le cose e gli uomini definitivamente perduti e irrecuperabili.
Ma io, caro Augias, io sono viva e sono qui, alla punta dello stivale, a reggere una Patria intera con la forza delle mie gambe, e con quella delle braccia date da sempre al resto della Nazione.
Sono viva Augias, e sono qui perchè non permetterò a nessuno, né oggi né mai, che quelli come lei vadano negando la speranza ai figli miei, a quelli nati ieri, a quelli venuti alla luce oggi, e a tutti quelli che nasceranno domani. Perchè bambini che sognano, in Calabria, ne nascono ancora. E io sono la loro terra. Terra di malaffare? NO, Terra dei calabresi onesti, puntuali, lavoratori. E se cerca la terra di nessuno, non sono io. Nessuna terra lo è, Augias. Ogni terra ha la sua gente e ogni uomo la sua terra. Tutti lo stesso mondo. È lei è semplicemente vittima del suo ego.
Ma da buona terra accogliente quale sono, la invito, Augias, la invito a venire quaggiù a fare il suo prossimo viaggio. Si scoprirà sorpreso, vedrà. Dietro al grigiore con cui tutti fomentano la mia fine, e millantano di sapere come salvarmi, ci sono tanti colori che invece mi danno, anzi mi garantiscono la vita.
È vero, la ndrangheta esiste, hai voglia se c’è. Conosco bene le mie debolezze, le mie grandi pene, ma la gente che lavora, che si sacrifica per sé e per me, e che lotta senza sosta per estirpare la malapianta dal mio grande giardino, esiste il doppio e anche di più.
Scoprirà, caro Corrado, che l’amaro in bocca che oggi ha e che forse anche la tormenta, con cui mi si scaglia contro ferocemente, potrebbe diventare dolce. Più dei fichi di fiore. Si ricordi che sui monti di pietra nascono i fiori, e anche dalla terra dura si può dissotterrare un tesoro.
Il mio invito è sincero, Augias, ma la prego, lasci ogni stereotipo fuori dai miei confini prima di arrivare, eviterà il giorno dopo di dire: scusate mi ero sbagliato.
Certa e sicura che il mio sarà per lei un gradito invito, la saluto affettuosamente dai due mari, ricordandole, per i suoi futuri interventi sulla mia pelle e sulle mie ossa che, “LA DIGNITA’ E’ IL LATO POSITIVO DEI CALABRESI. (Corrado Alvaro)

Giusy Staropoli Calafati
(scrittrice calabrese)

Pubblicato in calabria | Contrassegnato , , | Commenti disabilitati su CARO CORRADO AUGIAS SONO IO, LA CALABRIA

LETTERA APERTA AL PRESIDENTE CONTE – la voce della Calabria che non molla- (inviata il 15 novembre alle 12:45)

bb

Egregio Presidente Conte,
scrivo da una regione la cui tunica viene giocata a sorte per l’ennesima volta. E le folle insistono a voler scegliere Barabba, a conferma che Cristo davvero si è fermato a Eboli.

La Calabria ancora una volta terra di conquista.

Si continua a succhiarle il sangue da ogni parte del suo corpo nudo, mentre con occhi fragili e agonizzante, chiede aiuto. Si vuol rendere sazio solo chi ha sete (di potere, di quattrini e di vendetta).

Si continua a violentarla con la pratica immorale della ripetizione, senza farle neppure prendere fiato, mentre con voce fioca, grida aiuto. Si vuol soddisfare la smania di chi ha il disio di provar piacere.
Così, nella minimizzazione di una terra voluta sempre serva, ogni atto di violenza carnale alla Magna Grecia, ha il suo complice. E verrà scritto sui libri di storia il suo nome. E saranno più d’uno quelli a cui verrà chiesto il conto. Più d’uno, saranno i banditi pronti a levarle via la purezza degli ulivi, il volo casto della rondine marina, il candore dei bianchi calanchi.

Dopo che con il nostro sangue abbiam fatto l’Italia, caro Presidente, insistete a volerci privare dei diritti essenziali, calpestandoci la dignità, ed eliminandoci dalla nostra stessa storia. Ma se cadiamo noi, cadrà l’Italia intera. Siamo gli arti inferiori su cui si regge la Nazione. Se si piegano le gambe, viene giù tutto il corpo. Nessuno si salva da solo.

Proprio così, nessuno si salva da solo.

llNoi, esistiamo, Presidente Conte. I calabresi, esistono. Nell’onestà, nel sacrificio, nel lavoro, dallo Jonio al Tirreno, Dall’Aspromonte al Pollino. Con le forze e le debolezze, i sogni e le speranze. E al contrario di come fece Antonello dell’Argirò, che bene e saggiamente seppe raccontare Corrado Alvaro in Gente in Aspromonte, noi non ce ne staremo più qui, in cima ai monti, o giù per la marina, ad attendere la giustizia, affinché, col tempo suo, decida di arrivare. Le andremo incontro. Oggi più che mai. Perché se la politica, ancora una volta, si arroga il diritto di scegliere tra Gesù e Barabba, e Cristo lo inchioda e Barabba lo libera, il Covid non ce la fa a far differenze. Dove prende, coglie. E se coglie quaggiù, ancor più di quanto già non stia facendo, di scrivere ai postumi non avremmo altro tempo.

Questa è terra nostra, signor Presidente, non di nessuno.
Ci avete visti piangere, quando in fila come soldati, alle stazioni, con il fazzoletto in mano, salutavamo i padri, e i parenti, è vero. Ora invece ci vedrete disposti solo a lottare. Nessuno può morire perché qui, tra gli ulivi, non ci sono abbastanza ospedali. Il Re è stato lasciato nudo troppe volte.

Da calabrese vorrei poter dire che Cristo non si è fermato a Eboli. Eppure la bufera che si abbatte sulla mia terra, testimonia che qui forse non vive nessun Dio.

Il Governo centrale ci premia con l’invio di commissari su commissari. Cotticelli, Zuccatelli. Ferite sopra le ferite, senza farne rimarginare mai neppure una. E allora bisogna interrompere una volta per tutta la continuità massacrante che da un decennio a questa parte ci ha logorati soprattutto come esseri umani. E proprio per questo, ho deciso di scriverle questa lettera aperta. Perchè nessuno di noi può più stare a guardare. Un giorno accadrà che i nostri figli, i figli nostri, ( e con buona grazia del cielo i miei son quattro)ci chiederanno il conto per ciò che abbiamo fatto. Con qualunque carica abbiamo ricoperto, anche la più banale, o magari la più scontata. E in quel tribunale che sarà il loro futuro, caro signor Presidente, dovremo saper rispondere tutti.

La Calabria va saputa prendere, messa nelle mani di chi ne sa del Sud. Abbiamo uomini e donne che neppure lei immagina. Abbiamo menti, eccellenze, capacità, uomini coraggiosi e incorruttibili. Perché bisogna attingere sempre a graduatorie forestiere riportando in essere, ancora una volta, un programma troppo delineato, già previsto, con cui si arriverà in via definitiva a privare un popolo della sua dignità, e anche della vita? Perché?
A esser servi non ci siamo mai stati, Presidente Conte. Siamo insorti a Melissa, a Reggio Calabria, a Catanzaro. Quando ci mancava la farina, quando ci rubavano le olive, e certe volte anche le terre. A ogni pietra d’inciampo, quando siamo caduti, ci siamo sempre rialzati.

CALABRIA. In punta allo stivale, ma non al cuore.

Vorrei tanto che per un solo attimo Cesare Pavese, forestiero al confino nella desolata Brancaleone, le dicesse, come fece con sua sorella Maria, chi sono i calabresi e quanto vale la terra di Calabria. Amata e dannata, terra.
Vorrei che glielo dicessero Umberto Zanotti Bianco, Edward Lear, Paolo Orsi. Nessuno può operare, curare, dirigere e tanto meno commissariare una terra che non conosce. Un popolo che poco o niente rispetta. Che non gli è né conoscente, né affine.
Corrado Alvaro diceva il calabrese va parlato, ascoltato, voluto bene. Ma nessuno lo ha fatto. Eppure il maestro insegna e gli allievi imparano. Voi no. Ci avete sempre costretti, per fame, (e ora anche per salute) a essere briganti. A emigrare. E continuate a farlo. A volte con sdegno, altre solo per un piglio. Peggio dei signori (gnuri) che torturavano la vita dei coloni, schiavizzandoli per il pane o magari per la penicillina.
Ma son finiti quei tempi, caro Presidente. È finita l’ignoranza, l’analfabetismo…
Ora anche qui ci sono i libri, quelli che li scrivono. Ci sono l’intelligenza, la scelta, le idee, i valori, il coraggio e anche il doppio della lotta di ieri. I Calabresi non ci stanno più alle barbarie di un’Italia che ha sempre approfittato del suo Sud. L’era del latifondo è ormai passata. L’abbiamo combattuta e anche vinta. E ora, questa in cui liberamente vorreste bivaccare, e con maggiore forza di prima lo ribadisco, è terra nostra, non di nessuno.

I Proci hanno finito le risa porche e maledette, e pure la pacchia antica dei calici e del vino. Ulisse torna a Itaca. Ulisse è il nostro orgoglio, caro signor Presidente, Itaca, la nostra terra.
***
Venite, venite a vedere, a capire, a sentirci parlare, a dirci che da domani non dovremo più soffrire.

Venite a dirlo agli anziani, ai bambini.
Venite a dire ai giovani che possono restare. E che la soluzione non è più partire.
Venite, se ce la fate.
“Sono calabrese, ma sono figlia d’Italia anch’io”.
***
LA CALABRIA
Giusy Staropoli Calafati

Pubblicato in calabria | Contrassegnato , , , , , , , | Commenti disabilitati su LETTERA APERTA AL PRESIDENTE CONTE – la voce della Calabria che non molla- (inviata il 15 novembre alle 12:45)

CARA ITALIA quella che ascolti è la voce del tuo SUD

https://youtu.be/xc-9vsKcZ3U

Pubblicato in cultura | Contrassegnato , , , , , , | Commenti disabilitati su CARA ITALIA quella che ascolti è la voce del tuo SUD

CARO FELTRI 2

feltriCaro Vittorio Feltri, se non fosse per le gambe, gli uomini non sarebbero in grado di camminare. Sono infatti gli arti inferiori, che consentono la mobilità del corpo, e la possibilità di spostamento verso una meta.
Inferiori ho detto, hai capito bene. Come noi del Sud che, rimanendo sotto, permettiamo all’Italia di esistere. Reggendola oltre che sugli arti, anche sulle spalle. Non ce ne volere se, l’orgoglio di essere meridionale, è tra quelli che non potrai mai provare. Ma è come il suono del mandolino, una melodia che non potresti mai apprezzare.
Il Sud, è un destino dentro al cuore, che ti prende e non lo sai lasciare. È uno stato d’animo, non più solo un punto cardinale. È quell’amata Itaca, a cui Ulisse non smette mai di tornare. La narrazione di una storia, che il Nord non può dimenticare.
Vi abbiamo dato tutto quel che possedevamo. L’oro e l’argento; le fabbriche e gli uomini; il mare e le navi; il sudore e le fatiche; i medici e la scienza. Tutto quel che avete voluto. Il sangue, la moralità e l’onore.
Ricordi, caro Vittorio, quando vi industrializzammo finanche le paludi? E quando vi concedemmo le braccia, il pianto delle madri, e le partenze con le valigie di cartone?
Mai ci avete ringraziato. E quando ci sono rimaste solo terre incolte e fame, perché per noi ,non ci siamo tenuti niente, ci avete pure offeso. ‘Terroni’, e ci avete insultato. Almeno così avete creduto. E noi abbiamo dignitosamente subito. E non perché non eravamo capaci di reagire, ma perché, l’Italia unita l’abbiamo fatta noi. E l’abbiamo chiamata Italia, in nome degli Italioti. Senti com’è dolce il suono del nome, Vittorio Feltri: Italia, Italia.
Era il 17 marzo del 1861. E in nome di quell’Unità, in cui ci abbiamo rimesso tutto, l’abbiamo ugualmente amata. Rispettata e onestamente mantenuta.
Inferiori, noi siamo, Vittorio Feltri. Come le gambe, su cui l’Italia si regge ancora.
Giusy -Italiana di Calabria

(immagine tratta dal web)

Pubblicato in calabria | Contrassegnato , , , , , , , , | 1 commento

CARO FELTRI 1

feltri-salviniCaro, Feltri Vittorio, senza il mio racchetta palla di SUD, il tuo regale Nord, non sarebbe che un pezzo di terra a Settentrione.
Abbiamo messo a disposizione il sangue prima, e poi le braccia e le menti migliori, per industrializzarvi anche il pensiero. È vero, a Sud puzziamo tutti, caro Feltri, ma di scienza.
E vabbè dai, Vittorio, vedi Napoli e poi muori.
Ah, giusto per ravvivarti la stizza, ieri dalla Calabria sono ripartiti verso Bergamo i due pazienti guariti. Li abbiamo curati noi. E il signore che si è addormentato a Bergamo e si è risvegliato a Palermo, si tatuerà la Sicilia sulla pelle.
Il Sud siamo noi, caro Feltri. E che ti piaccia o no, senza SUD nessuna Italia è fatta, anche se Caino insiste a voler uccidere Abele. Ma ricorda, la vera Polis non si può costruire sul sangue di un fratello.
Giusy – Italiana di Calabria

(immagine tratta dal web)

Pubblicato in Senza categoria | Contrassegnato , , , , , , | Commenti disabilitati su CARO FELTRI 1